Il film di L. Menaldino su Agile proiettato venerdì 15 novembre al cinema Politeama in occasione della Festa in Rosso
Dieci anni di distanza da una brutta storia, datata 2009, sul lavoro perduto o meglio dire “rubato” per parafrasare il Furio Colombo delle prime inquadrature. Immagini che sono una catena di volti celati da maschere bianche e lucide, volti invisibili di lavoratori superflui, voci soffocate ma indomite, occhi che roteano nel vortice di una paura che si chiama disoccupazione. E’ una delle tante storie che hanno portato alla dissoluzione del lavoro italiano, un atto in cui si configura la tanto decantata iniziativa imprenditoriale, l’investimento che persegue, come primo obiettivo, il ridimensionamento degli organici. L’azienda Olivetti, che ha dato origine alla costola Agile, è l’esempio di come, attraverso la famosa e azzeccata definizione di “spezzatino industriale” si possano smantellare le grandi aziende e agevolare i licenziamenti costituendo finti rami d’azienda. E’ il caso di Agile, operazione imprenditoriale deliberatamente finalizzata al fallimento programmato e alla chiusura. A farne le spese, come sempre, i dipendenti, quelli che, nonostante la determinazione e la fierezza delle lotte sostenute, hanno pagato, e ancora pagano, il peso di scelte intenzionalmente sbagliate. I rami d’azienda si sono rivelati molto presto, come l’adeguata terminologia della storia Agile insegna, niente altro che “scatole vuote”, anzi scatole piene di lavoratori inutili da scaricare per strada.
Il film di Menaldino è una drammatica sequenza di interviste a questi lavoratori che portano inciso nella voce e sulla pelle il peso di quella condizione dove, al danno della perdita del lavoro, si è aggiunto il sapore della beffa, ancora più lesivo per la dignità personale di ognuno.
Al netto dei lavoratori più anziani, che sono riusciti ad agganciare la pensione, e quelli che hanno beneficiato di una riconversione industriale o di nuove opportunità, ancora oggi a Ivrea sono una trentina i disoccupati di Agile in cerca di impiego. Purtroppo è questa una realtà che oggi stride dolorosamente con la risonanza mediatica dedicata alla città industriale eporediese, patrimonio mondiale dell’Unesco grazie alla Olivetti. Di questo modello architettonico, lavorativo e sociale, costituito dalla ex grande fabbrica, oggi si possono enfaticamente celebrare gli allori in quanto innocuo e definitivamente sepolto. Il modello Olivetti oggi è retorica per i media e non esempio da rilanciare. Il suo è un passato sacrificato alla dittatura del mercato moderno, quello dove i lavoratori vengono anche licenziati con un messaggino via WhatsApp.
Cadigia Perini, che presenta il film, dice che oggi manca una politica del lavoro. A me sembra, invece, che la politica ci sia e si manifesti chiaramente nel processo di globalizzazione dove i lavoratori ancora coperti dai diritti, grazie alle conquiste del passato, sono messi in concorrenza con i lavoratori di paesi dove i diritti nemmeno esistono. Oggi la gestione del lavoro passa anche, a mio modesto parere, attraverso la demolizione preventiva dei diritti, rendendo sempre più inermi e ricattabili le masse lavoratrici. La globalizzazione non è il sogno possibile del confronto e dell’arricchimento tra diversità culturali ed economiche, ma egemonia del mercato a senso unico dove domina solo la legge cruda del profitto.
Chiudo dicendo che tra gli interventi ascoltati, dopo la proiezione del film, mi ha colpito quello di una signora, ex dipendente Agile che, procuratosi un lavoro alternativo grazie al suo spirito di iniziativa, metteva in guardia dal ricorso agli ammortizzatori sociali che, a suo dire, finiscono di abbassare lo “skill” professionale dei lavoratori. Proprio perché ho sempre privilegiato la presa di coscienza individuale rispetto a quella collettiva e considero centrale l’individualità, trovo ridicolo attribuire responsabilità oggettive agli ammortizzatori. Se li si ritiene un danno d’immagine invece che un sostegno temporaneo, la colpa non è dello strumento in sé ma di chi non decide di farne immediatamente a meno.
Pierangelo Scala