Fallito il tentativo della Lega di modificare la legge sul gioco d’azzardo patologico in Piemonte
Finita con un nulla di fatto la Proposta di Legge a firma del leghista Claudio Leone. Non solo a causa della tattica ostruzionista della minoranza, che ha presentato 65 000 emendamenti, ma anche e soprattutto per la mancata coesione della maggioranza, con Fratelli d’Italia e Forza Italia che si smarcano e lo stesso Cirio totalmente assente durante il consiglio. Alla fine la Lega ha dovuto cedere, promettendo però una nuova proposta, stavolta con una maggiore mediazione con FI, nel giro delle prossime settimane.
Tutto è iniziato nell’ormai lontano 2 maggio 2016, quando l’allora giunta regionale a guida PD varò la cosiddetta legge 9/2016 sul contrasto al gioco d’azzardo patologico: sostanzialmente una serie di restrizioni, tra le quali le più contestate riguardano il divieto di posizionamento di slot e sale da gioco a meno di 500 metri (300 metri nei comuni con meno di 5000 abitanti) dai cosiddetti luoghi sensibili, tra i quali scuole, ospedali, chiese e sportelli bancomat. Ciò che ha sollevato il polverone, cavalcato solo in seguito dalla Lega, è stata però la retroattività di questa legge, che dava il tempo ai proprietari di mettersi in regola, ma altresì costringeva chi avesse aperto una sala da gioco vicino ad una di queste aree sensibili a chiudere o trasferirsi. Da qui la protesta dei lavoratori del gioco d’azzardo, concretizzatasi nella manifestazione davanti a palazzo Lascaris del 20 aprile, e il tentativo della Lega di annullare tali restrizioni.
Oltre alla salvaguardia dei posti di lavoro, sul cui numero esatto non sembra esserci chiarezza (ne andrebbero persi 1700 secondo gli analisti, 2500 secondo i lavoratori e 5000 secondo la Lega), le altre ragioni portate dagli organizzatori della protesta sono sostanzialmente due: la prima riguarda le restrizioni che, comportando una limitazione del gioco legale, porteranno ad un aumento del gioco illegale, quindi privo di controllo e totalmente in mano alla malavita. Se questa argomentazione può apparire ad un primo sguardo condivisibile, la seconda lo è molto meno: i consiglieri che attaccano il gioco d’azzardo sarebbero gli stessi che promuovono la cannabis light, in una sorta di proibizionismo a senso unico.
La cannabis light, priva del principio attivo denominato THC, non ha potere psicoattivo e quindi non è classificabile come droga, ma su questo si può anche soprassedere. Il punto è che queste affermazioni non reggono un’analisi più approfondita: a differenza della vendita di sostanza psicotrope, tuttora severamente vietata in Italia, la limitazione del gioco d’azzardo non lo rende automaticamente illegale, ed è difficile credere che 500 metri in più spingano il consumatore nelle braccia della malavita. Non è finita qui: secondo ricerche compiute in anni recenti questo tipo di limitazioni funziona, andando a combattere la tendenza al comportamento compulsivo propria di questa particolare dipendenza. La “febbre del gioco” infatti, seppur rientra a tutti gli effetti nella definizione di dipendenza patologica, si differenzia nel pratico da quella da sostanze: mentre in quest’ultima vi è la ricerca compulsiva della droga dettata anche da processi chimici, nel gioco d’azzardo la compulsione sta proprio nell’atto di spendere, rischiare, vincere o perdere. A livello teorico un tossicodipendente non spenderebbe soldi in sostanze vendutegli da qualche tizio poco raccomandabile se queste gli venissero fornite gratuitamente, mentre l’euforia del gioco d’azzardo sta tutta nell’atto. In pratica la mancanza di occasioni per scommettere spinge molti giocatori a rinunciare o a giocare di meno, e gli sforzi compiuti in questo senso hanno portato a un’effettiva diminuzione del numero di fruitori.
Guardando la cosa da un punto di vista etico, sarebbe fin troppo facile sentenziare che se il senso del tuo lavoro è speculare sulle disgrazie della gente, allora forse è meglio impedirti di farlo, poichè sarebbe poi ancora più facile rispondere che questo discorso va applicato anche ai baristi, ai tabaccai, ai fast-food. Il problema non è che queste cose esistano, ma che alcune persone finiscano con l’abusarne. Ma lì diventa responsabilità personale. No? Ni.
Come al solito la verità è più sfumata e complessa: realisticamente parlando non si può pensare di eliminare dalla faccia della terra il gioco d’azzardo, al massimo si può tentare di regolamentarlo, ne si può biasimare chi, nel pieno rispetto delle normative legali vigenti, apre una sala da gioco o piazza una slot nel proprio locale. A maggior ragione non è incomprensibile la protesta quando il proprio lavoro viene attaccato da leggi nuove, per di più in un momento di crisi economica come quella che stiamo attraversando, e non è strano che queste categorie si tuffino tra le braccia dell’unico partito che li appoggia.
Allo stesso tempo è impossibile negare la natura di piaga sociale del fenomeno del gioco d’azzardo in questo paese, le cui proporzioni hanno portato tra le altre cose alla progressiva trasformazione dei SerT (Servizio per le Tossicodipendenze) in SerD (Servizio per le Dipendenze patologiche). Circa la metà dei casi presi in cura in questi centri non si presenta più per abuso di sostanze, ma per dipendenza dal gioco. In Italia, vuoi per una diffusa cultura dei soldi facili e del colpo di fortuna, vuoi per un generale senso di insicurezza costante dovuto alla dissoluzione dei rapporti lavorativi, amiamo molto il gioco d’azzardo, e spendiamo ogni anno fiumi di soldi in slot e sale da gioco, che seppur legali spesso si rivelano essere lavatrici di soldi per la mafia. In particolare sembra essere un vizio tipico delle fasce più povere della popolazione, un mercato che pianta le sue radici nelle disgrazie e nelle crisi. Anche per questo e proprio in ragione della crisi che stiamo attraversando vi è necessità di controllo statale. Non a caso nonostante il molto rumore fatto dai lavoratori del gioco d’azzardo vi sono state iniziative a favore delle restrizioni su tutto il territorio regionale, come la manifestazione dei sindaci contro la ludopatia riunitisi a Biella, così come si sono moltiplicate le dichiarazioni in questo senso di psicologi, operatori, associazioni e singoli cittadini, persino qualche leghista.
Aspettando di vedere se alle parole della Lega seguiranno fatti concreti o se quest’ultima preferirà abbandonare la battaglia, rivelatasi non vantaggiosa quanto sperato da un punto di vista elettorale, speriamo che le restrizioni fin qui imposte aiutino a ridurre il problema della ludopatia, pur consapevoli che qualsiasi soluzione di carattere legale non sarà che un tampone a una piaga ormai da tempo incancrenita.
Lorenzo Zaccagnini