Le lacrime e il sangue dei Partigiani

Il libro La Resistenza in Canavese, di Mario Beiletti dell’Anpi di Ivrea

Squarci di luce esplicativa gli interventi in corsivo che sorgono opportuni nell’insieme intricatissimo dei dati presentati a mo’ di appunti e con la ben nota perizia da Mario Beiletti, Presidente dell’Anpi di Ivrea e del Basso Canavese, curatore del nuovo libro sulla Resistenza canavesana pubblicato da Pedrini per l’ottantesimo della Liberazione e con una Presentazione dello storico Gianni Oliva.
 Dietro ad ogni singolo dato, ad ogni singolo nome proprio di persona o di luogo, dietro ad ogni nome di battaglia c’è però non soltanto una storia: c’è tutta la nostra Storia. Non solo cioè quella dei singoli protagonisti italiani, che acquista in tal modo il suo senso particolare all’interno di narrazioni diverse e di prospettive contrapposte, ma anche quella che rientra nel destino, vale a dire nel passato, nel presente e nel futuro dell’Italia.
Solo in apparenza poi tutti quei dati sono diversi l’uno dall’altro. In realtà essi compongono l’insieme sinaptico di un’illimitata memoria a cui questo testo si offre come chiave d’accesso – una chiave sicura, poiché proviene dagli archivi dell’Anpi. Costitutivi di una vasta rete nella quale, a seconda della luce con cui la si considera, si può riconoscere l’intreccio di destino, di storia e di memoria, tutti quei dati altro non sono che nodi che tengono assieme quella rete e che si possono riscontrare sia nella Storia universale sia in quella individuale. È proprio per sottolineare questa complessa coappartenenza che Beppe Fenoglio scrisse Una questione privata. Tali nodi inoltre, che non possono essere sciolti senza mettere in pericolo la tenuta dell’intero intreccio, possono invece e anzi dovrebbero essere sviluppati, illuminati e compresi nella loro complessità specialmente dagli studenti. In questo senso va interpretato l’esergo del libro: “Per chi c’era e vuole ricordare, per chi non c’era e vuole sapere…”.
Tuttavia il voler sapere storico non può non presupporre anche una più profonda consapevolezza esistenziale, quella che questo testo riesce in effetti a suscitare anche in chi non c’era. Si tratta della consapevolezza del fatto che quasi in ogni angolo del verde Canavese, alto o basso che sia, in tutti i suoi piccoli paesini, ridenti o seriosi, nei quali ora la gente liberamente vive e si trastulla, solo qualche decennio fa (in quel Tempo di giganti recita il titolo di una delle due poesie che l’autore ha voluto accludere al suo prezioso volumetto) si innalzavano i gemiti e le invocazioni dei giovani ribelli. Erano luoghi quelli in cui scorrevano le lacrime e il sangue di coloro che seppero scegliere non una vita purchessia, ma una vita degna d’esser vissuta dall’essere umano, a qualsiasi latitudine esso si trovasse.
Come tanti altri, anche noi allora non c’eravamo, ma abbiamo avuto la fortuna di conoscere e soprattutto di aver fatto conoscere ai più giovani alcuni di questi giganti della Resistenza Canavesana. Molte di queste storie che Beiletti riporta nel suo libro le avevamo ascoltate e apprese più volte dalla viva e appassionata voce dei Testimoni, i quali, per molti, più che maestri di storia si sono rivelati maestri di vita. Solo in questo senso, infatti, cioè filtrandola attraverso le parole accorate e intense dei protagonisti di quell’epopea resistenziale, si può affermare che la Storia è magistra vitae.
Ebbene, solamente da una tale consapevolezza esistenziale e storica può maturare il vero radicamento, quella vera, concreta e sentimentale appartenenza che emerge dal Testamento della memoria che Beiletti ha voluto evidenziare in un’altra sua poesia acclusa, Mi chiedevo spesso che fosse. Una consapevolezza del mondo che si può solo intuire, giacché rimane sempre affidata alla reticenza, ai silenzi, alle sospensioni, alle parole non dette, come se, paradossalmente, la continuità del patto tra i giganti e i loro discendenti potesse continuare solo nelle pause, attraverso il silenzio reticente. Un radicamento e un’appartenenza che vengono avvertite da ogni uomo che vuole conoscere la propria storia al fine di dare un senso e un fondamento alla propria esistenza. Solo su questo consapevole radicamento, a prescindere dai luoghi specifici in cui gli uomini e le donne si trovano a soggiornare, può fondarsi l’idea della convivenza cosmopolitica e con essa, in ragione di tutte le lotte resistenziali, anche il sentimento di solidarietà e il profondo e naturale senso della pace.
Proprio come le loro parole, così cariche di riserbo e di tacita passione, sospese erano anche le vite stesse dei giovani Partigiani. Una sospensione che ha la bellezza di certi momenti incantevoli del Requiem mozartiano, specie nella direzione di Claudio Abbado. Con lui il lungo e silenzioso differimento ad opera conclusa, diventa parte costitutiva dell’opera stessa. In quei momenti densi di stupore, questa dilazione si vive come un’attesa consapevole di un destino che pende sul capo degli esseri umani e che sta per abbattersi su di loro, prima di cadere e di ritornare alla terra, all’humus, a quell’inorganico da cui ogni essere umano proviene. In tal modo, il senso della Comunione diviene totale, quasi mistica, giacché il significato del Requiem (completato dopo la morte del musicista) ricomprende in sé musicalmente non solo l’anima del compositore austriaco (scomparso a soli trentacinque anni), non solo quella del direttore d’orchestra (che morirà poco tempo dopo aver diretto a Lucerna il capolavoro mozartiano), ma anche, per l’appunto, l’anima dei giovani Partigiani, la cui opera, trascritta in quella sorta di spartito politico quale è la nostra Costituzione, per molti versi attende ancora di essere completata e realizzata, cioè eseguita in rispetto delle idee dei suoi eccezionali compositori.
Prendiamo ad esempio il torinese Walter Fillak. Nel ’44, quando venne chiamato a far parte della Settima Divisione Garibaldi, il suo nome di battaglia era Martin, ma nel ’43, quando entrò nei Gap genovesi, il suo nome di battaglia era Gennaio. Espulso dal liceo nel 1938 per le sue “affermazioni non consone allo spirito d’un giovane fascista”, il giovane “irriflessivo” aveva già alle spalle sia l’esperienza dell’impegno nel nucleo comunista studentesco sia l’esperienza del carcere. Prima di essere impiccato dai nazifascisti per ben due volte a Cuorgnè il 10 febbraio del 1945 (credeva di venire fucilato e non aveva ancora compiuto venticinque anni quando il nazista che l’aveva condannato gli diede il colpo di grazia), nella sua ultima lettera ai genitori scrive: “Sono tranquillo e sereno perché pienamente consapevole d’aver fatto il mio dovere d’italiano e di comunista”, di aver “combattuto per la liberazione del mio Paese per affermare il diritto dei comunisti alla riconoscenza ed al rispetto di tutti gli italiani” (i corsivi sono nostri, a mo’ di memento per certi ministri ed ex ministri dell’attuale compagine governativa).
Come si vede, ritorna qui con Martin, in maniera profonda e radicale, il senso autentico di appartenenza e di radicamento in un Paese per la cui liberazione dall’iniquità nazifascista, come da qualsiasi altra ingiustizia, vale sempre la pena, allora come oggi, impegnarsi, combattere e dare la vita.

Franco Di Giorgi