Un divertimento anche letterario: Le “cure di primavera” del giardino dopo l’inverno; Ivrea (To) Italia, metà mattina del 13. 4. 2017
Quest’anno la primavera sta un po’ rallentando. Sembra voglia progredire più piano. Marzo non ha portato molto vento e le piogge di aprile hanno ancora da venire. O forse è l’inverno che si è allungato un po’ più del solito. Per me la cosa non avrebbe molta rilevanza se non fosse che devo fare al giardino, soprattutto al piccolo prato, “le cure di primavera”. Le cure di primavera. I manuali del perfetto giardiniere autosufficiente non guardano in faccia nessuno: ordinano che, appena la natura si svegli dal letargo e dalle gelate dell’inverno, si proceda alla potatura degli alberi e alla prima decisa rasatura del prato. Non c’è bisogno di togliere sterpi e foglie secche dell’autunno poiché il perfetto giardiniere ha già tolto tutto a tempo debito come prescrivono i manuali. E ha prodigato le cure al giardino persino nel cuore freddo dell’inverno.
Io però non sono un perfetto giardiniere: appena il tardo autunno rallenta la crescita dell’erba e il freddo o il vento spogliano piante ed alberi mi fermo e vado in letargo botanico. Con quieta malinconia osserverò dalle finestre lo sbiadire delle secche ortensie, la pioggia dei vecchi petali delle rose, la coltre delle foglie del fico… con certa fatale tristezza sconterò i giorni della neve e del ghiaccio nell’attesa della primavera. Di nuovo un’altra primavera. Ecco, di nuovo dovrei potare gli alberi e tagliare il prato appena uscito dal letargo. E, poiché non sono un perfetto giardiniere, dovrei togliere ogni traccia di quel che è rimasto dell’inverno: i resistenti sterpi della peonia, i fioroni delle ortensie, le foglie del fico e delle rose…
E tagliare l’erba. No. Io non taglio mai l’erba nelle date giuste. Con fare eretico lascio che il prato si risvegli del tutto e che le primule di ogni colore lo invadano, e dopo le primule, e mentre lui cresce, lascio che arrivino le bugole, che fanno chiazze di blu sull’erba, e poi lascio che arrivino le viole, una pioggia di piccoli coriandoli, quest’anno bianchi, sull’intero prato, e nel frattempo si insinua il tarassaco e le piccole margherite, pennellate di rosa e di giallo. Che lento e bello spettacolo! Come può il tempo del giardiniere interrompere per ragioni culturali il tempo della natura? Io non lo faccio. Aspetto ogni anno che finisca per intero la fioritura di primavera. Quest’anno però, dicevo, la primavera sta un po’ rallentando, o forse è l’inverno che si è allungato un po’ più del solito: ancora rimane, quindi, qualche bella primula qua e là, le viole bianche campeggiano ancora con tutto il loro vigore su tutto il prato, all’ombra dell’alloro interi cuscini di bugole blu resistono allo sbiadire e nel frattempo, ahimè, l’erba cresce, e il tarassaco è già pieno di soffioni, e la peonia è già rinverdita e sulle tenere nuove foglie del fico si posano le prime coccinelle; le rose sono in bocciolo e qualcuna è già aperta; il rosmarino sta sfiorendo, l’alloro è già fiorito e sta facendo i polloni, le ortensie son già verdi e io non le ho ancora pulite nè potate; il quadrifoglio e le ortiche stanno diventando troppo forti, persino molte gramigne sono già alte e fiorite. E io devo fare, ANCORA, “le cure di primavera”.
Se io avessi una vera anima di giardiniere avrei già potato, tagliato e risolto tutto. Ma non ce l’ho. Non mi piace mediare in prima persona tra Natura e Cultura. Casomai io avessi un’anima da giardiniere sarebbe un’anima di giardiniere delle parole, dei colori, degli odori, dei suoni, dei sapori… persino dei baci. Ma anche qua sono malmesso. Se io stessi scrivendo un romanzo adesso mi dilungherei e popolerei il giardino di personaggi leggiadri o misteriosi, con nomi come Natalia, o Adriano, o Piero… le cui azioni emozionano o coinvolgono il lettore; persino descriverei cosa provano quei due che si baciano sotto l’alloro. E se fossi addirittura un poeta adesso andrei sulla metafora e sul sublime: Giardiniere della tua bocca sono/ e della mia, tu;/ e nell’ardore dell’istante/ oltre la siepe delle carnose rose cerco/ i freschi ruscelli;/ e anche tu cerchi/ nella mia/ bocca/ il luogo ombroso e calmo/ profondo/ da dove emana/ dolce/ il tiepido liquore/ che… ecc, ecc, ecc. Ma, eccoci, io sto scrivendo il testo per una rubrica e devo rimanere nel campo dell’obbiettività e della pura esperienza. Io devo essere puro intermediario, se ci riesco, nell’ora e nel luogo esatti, tra la realtà e le parole che la descrivono.
Adesso, quindi, il tosaerba sta tagliando l’erba e il motore rallenta quando trova una gramigna alta e resistente, i semi volanti dei soffioni del tarassaco fanno piccoli fuochi d’artificio; l’erba, alta, è ancora umida e il contenitore del tosaerba si riempie di una massa verde (di tutti i verdi), un po’ melmosa e pesante, puntellata di giallo, rosa, bianco e blu. A volte mi arriva l’odore della limonella secca e dell’alloro, anche del rosmarino. Taglio i polloni dell’alloro e delle piante infestanti (infestanti?); seleziono il tralcio per rinnovare una vite spontanea che, randagia, si arrampica verso il balcone. Le foglie secche del fico emanano un profumo intenso; poto ( a questo punto, appena) le rose; pulisco (a questo punto a rischio) le ortensie, le peonie, l’aquilegia… rassetto qua e là, anche intorno alle piccole felci e all’agrifoglio spontaneo, do al tutto un senso di ordine. Ecco. Un senso di ordine. Un ordine culturale. Guardo dall’alto e sono contento: anche quest’anno ho fatto al giardino, un po’ mio malgrado, un po’ volontariamente, “le cure di primavera”.
Il cagnolino-bambino, il gufo africano e il merlo chiacchierone: Tra Natura e Cultura su un treno Intercity Milano-Taranto ed a Scapezzano (An), sulle colline delle Marche (Italia); 15-16. 4. 2017
Riassumo. Mentre sul treno stiamo per sistemarci nei nostri posti prenotati, nel compartimento accanto scatta una discussione. Una signora col giovane figlio sbraita e si nega a sistemarsi nei posti previsti per loro. Noi ci offriamo per uno scambio di compartimento. Il figlio, stupito, ringrazia ed accetta la proposta: sua mamma non sopporta i cani. Non ce la fa. Ci accomodiamo nei nostri nuovi posti. Nel nostro nuovo compartimento il padrone del cane sbraita anche. “C’è modo e modo”, dice. Ha in braccio un molosso di piccolissima taglia nero, un carlino, teneramente brutto, come i molossi. Non mi dilungo. Tutti siamo d’accordo, a nessuno dei presenti dispiacciono i cani. Ci eleviamo in volo pindarico: la natura, gli animalisti, le esagerazioni degli animalisti, gli antianimalisti, le contraddizioni dell’animalismo, l’amore per gli animali, i legami emotivi… Il padrone del cane è un giovane ragazzo, alto e cicciottello, glamouroso e trendy, un po’ sopra le righe, cappello in testa; è designer anche se fa ancora l’università, viaggia molto, Amsterdam, California, Barcellona… Sempre col suo molosso. E’ molto comunicativo. L’urbanistica e l’architettura sono sue grandi passioni. Parliamo. Premuroso e tenero, si comporta col carlino come una giovane mamma (anche papà, non si offendano i neo-maschi) esperta del suo bebè. Quando lo tiene in braccio sembra una madonna barocca che espone il sacro bambino nudo, di fronte, con le gambette e i braccini aperti e il pisellino al centro. Un’immagine particolare. Una strana icona. Sono accanto a loro ed ad un certo punto mi sorprendo: molto vicino al ragazzo, in un’insolita intimità, sto accarezzando le manine tenere del molosso come un sangiuseppe bonaccione in una sacra famiglia. Interrompo le mie carezze, ho una discussione aperta con me stesso: non ho chiaro il ruolo dell’addomesticamento animale e ancor meno quello dei pet toys nelle società tecnologiche, come non ho chiare altre cose relative all’animalismo. So che tutto ha un senso ma non so quale sia il punto di equilibrio (piuttosto dinamico) dove attestare questo senso. Il viaggio comunque è stato interessante e molto piacevole.
Salto e riassumo di nuovo. Siamo sulle colline marchigiane. Un tramonto di pura bellezza. Passeggiamo. In una villetta a schiera a ridosso del centro abitato di Scapezzano un ragazzo e la sua compagna stanno “facendo volare” il loro gufo africano. Lo fanno volare dall’uno all’altro e ad ogni volo gli danno un pezzo di pulcino che il ragazzo ha nella tasca della tuta e che va poco a poco squartando, ora una zampetta, ora la testa piumata, ora le viscere… E’ un animale selvaggio e possente questo gufo. Ha cinque anni e vive solo e in casa col suo curatore dai suoi primi giorni. Si vede che si capiscono ma il ragazzo deve stare attento: il gufo rimane un animale selvaggio. Mentre parliamo sommessamente il gufo rimane attento, il penetrante sguardo fisso, il corpo immobile. Ruota solo il collo, inquisitorio, a scatti, come una macchina da guerra alla ricerca del bersaglio. E’ un piacere guardarlo. Mentre lo guardo penso al rapporto positivo che hanno l’animale ed il ragazzo. So, come con il carlino, che questo rapporto ha un senso ma, tra Cultura e Natura, non so dove fissare il punto d’incontro. Nel frattempo sento un fischiettare insistente e come umano. E’ un merlo della casa vicina che non ha imparato il proprio verso. Sin da piccolo emette suoni umani imparati dai suoi padroni. Non disturba il gufo, che è abituato a questi suoni. Anzi. Tra loro si stabilisce un sorprendente dialogo automatico.
Penso al complesso e difficile rapporto attuale tra gli animali e gli umani. Alla loro interdipendenza e ai loro reciproci danni. Ai loro legami ed ai loro amori. Alla loro bontà e alla loro tossicità. Alla fatale centralità dell’uomo rispetto all’animale. Ai rapporti di sfruttamento e di addomesticamento. La potenza della cultura umana attuale ha messo in crisi il rapporto con gli animali. Il relativo discorso ha acquisito un’ingarbugliata complessità. Dove è la chiave? Forse nel fatto che la cultura contemporanea ha messo in evidenza, più che mai, la condizione dell’uomo stesso di animale auto-addomesticato. La Cultura umana non è altro che un’operazione di addomesticamento. Di auto-addomesticamento. Misteriosa e grandiosa operazione della Natura: riuscire ad addomesticare un suo essere mediante se stesso. Qui siamo. Verso dove andiamo?
Paco Domene