Riflessione del professor Franco di Giorgi del direttivo della sezione ANPI Ivrea e Basso Canavese che denuncia l’ipocrisia e l’ambiguità del potere.
1. Mentre quasi tutte le potenze mondiali oggi fanno ben poco per far cessare l’assurdo massacro in Ucraina – una guerra venuta alla ribalta dei media solo da un anno, pur essendo iniziata nel 2014 – le medesime potenze, contemporaneamente, si affrettano a salvare le persone portando il loro aiuto alla Turchia e alla Siria colpite dal tremendo sisma di magnitudo 7.9. I sismologi dicono che è stato mille volte più forte di quello di Amatrice e trenta volte più devastante di quello in Irpinia. Dopo quattro giorni dal disastro i corpi senza vita estratti dalle macerie erano ventimila, cioè quante sono all’incirca le vittime civili in Ucraina, tra morti e feriti. Oggi sono già il doppio. Il paesaggio con le orribili macerie è lo stesso. In un caso, in Ucraina, è la mano dell’uomo che continua a produrle, cercando di sotterrare il maggior numero di caduti. Nell’altro caso, in Siria e in Turchia, è stato il terremoto. Ma è lo stesso uomo che, con la stessa mano cerca di togliere quelle macerie nella speranza di salvare più persone possibile. Con una mano insomma si uccide, con l’altra si salva.
E come le macerie, anche le vittime sono sempre le stesse. Da una parte, infatti, i sopravvissuti alle bombe e al terremoto, cioè al sisma geopolitico e a quello geofisico, si vogliono salvare. Dall’altra e contemporaneamente, quando questi superstiti sulla rotta balcanica chiedono aiuto alle frontiere dei paesi non martoriati da guerre o da terremoti, questi stessi paesi sbarrano loro la strada, alzando muri di filo spinato sorvegliati dalla polizia o dall’esercito. Ad un tempo mentre un braccio dà il comando per continuare la guerra, l’altro viene teso per aiutare il prossimo. E soprattutto, mentre si invoca la pace, al tempo stesso si producono armi sempre più distruttive. Come se la pace potesse realizzarsi solo facendo la guerra. Come se la pace non coincidesse con la deposizione delle armi. Il risultato dell’ambiguo agire di quelle potenze è allora pari a zero. Ecco il cortocircuito che fa saltare e che annulla ogni logica. Un cortocircuito che lacera stati e confederazioni, partiti e associazioni.
Questa lacerazione ha origine nella liberazione dell’Europa dal nazifascismo ad opera dei due maggiori alleati, verso i quali quasi tutti gli stati europei liberati, ad est e ad ovest, hanno contratto un debito inestinguibile sancito con l’adesione alle due rispettive alleanze. Venendo meno nell’89 e agli inizi degli anni ’90 l’alleanza del Patto di Varsavia, molti paesi dell’ex impero sovietico, a causa del suo regime oppressivo, sono stati attratti dall’altra alleanza, quella del Patto atlantico e della Nato (che comprende in sé naturalmente anche l’Unione europea), pur conservando la propria sovranità. Come altri stati dell’ex Unione sovietica, anche l’Ucraina dal 1991 è una repubblica indipendente, ma la sua legittima adesione all’Europa significherebbe portare la Nato al “confine” (questo l’etimo del nome Ucraina) della Repubblica federale russa.
Non serve a niente dunque salvare la faccia salvando le persone quando queste, una volta divenute migranti, si vedono respinte al confine dagli stessi paesi che le hanno aiutate a salvarsi. Ma la stessa cosa non accade forse anche con i migranti dell’Africa? Che cosa fanno i cosiddetti paesi cristiani d’Europa? Mentre da un lato vanno in chiesa e con un braccio si fanno il segno della croce e si battono contriti il petto, dall’altro, ritirando sdegnati l’altro braccio, lasciano annegare persone innocenti di ogni età che sfuggono ad altre guerre più lontane, alla fame, al deserto, agli abusi, alla violenza. E ancora, da un lato i signori e i signorotti della geopolitica si riuniscono a scadenza annuale per dire che hanno tutta l’intenzione di salvare il pianeta azzurro, dall’altra, una volta finito il fastoso summit, si rimangiano sistematicamente le parole e le carte che hanno appena siglato, e continuano come nulla fosse con i loro abusi geopolitici, con i loro progetti energetici che generano devastazioni nell’ecosistema.
2. Dinanzi a questa nuova e imminente emergenza migranti l’Europa dei muri cerca quindi di correre ai ripari. Si mette a discutere non già del fatto che le barriere anti-migranti sono in sé umanamente e cristianamente ingiuste e che andrebbero vietate o abbattute, bensì del fatto che risultano costose e che costa molto mantenerle. E poiché agli occhi cristianamente spaventati dei governanti europei i muri non sembrano affatto ingiusti, e dal momento che non c’è nessuna norma europea che vieti a uno stato sovrano di costruirli per difendersi (non da un nemico aggressivo, ma dal flusso di inermi migranti – quelli stessi, lo ripetiamo, che alcuni di tali paesi stanno aiutando con i loro supporti umanitari), allora si pensa di costruirli direttamente con finanziamenti europei, ossia con i contributi dei cittadini europei. In tal modo, a loro insaputa, anche coloro che per principio sono contrari ai muri vengono coinvolti e resi partecipi di quell’insulto all’umanità.
Un’altra contraddizione, non sempre evidente, cui le potenze vanno incontro è quella di trasformare in surplus depersonalizzato, scabroso e scabbioso, quelle persone a cui il loro stesso essere costrette a spostarsi fa automaticamente perdere il diritto ad esistere. È quella cioè di far apparire come umanità di scarto e senza valore, e quindi indegna di vivere, tutti quegli individui che le medesime potenze, per ragioni geopolitiche, hanno di fatto reso migranti con le loro guerre mosse da un “furore egemonico” che manifestano con la “forza militare” (citiamo dall’Humana conditio di Norbert Elias). Il complicato e spinoso problema che questi stati debbono dunque affrontare è quello di creare i presupposti negativi o le opportune motivazioni giuridiche al fine di legittimare e giustificare i loro interventi positivi contro il pericolo migranti. E il fatto di continuare a definire questi individui “clandestini”, se non addirittura come un “carico residuale”, è già un elemento di una siffatta giustificazione.
Si intravedono già pertanto gli elementi per una speculazione sulla questione dell’emigrazione. E con essa si prevede anche una corsa a incamerare gli utili, vale a dire i finanziamenti europei per la costruzione dei muri, dando così l’avvio, proprio a causa di ciò, anche alla competizione tra gli stati che aderiscono a quell’iniziativa muraria europea, per vedere chi di essi sarà in grado di costruirne di più saldi, di più alti e insormontabili, di più sicuri; per vedere insomma chi di loro saprà meglio risolvere questa nuova Frage, questa nuova questione riproposta come un’onda dei tempi, chi saprà approntare la soluzione più ottimale per la questione migranti.
Ecco perché, in previsione della nuova ondata di sfollati turchi e siriani che il terremoto provocherà (sono ormai cinque milioni e mezzo, ai quali si devono aggiungere i sei milioni e mezzo di profughi che già si trovano nella zona), l’Unione europea cerca di correre ai ripari, promettendo di gestire al meglio l’afflusso alle frontiere, fornendo infrastrutture mobili e fisse finanziate con i fondi europei. Una decisione che, ovviamente, non può che far contenti quegli stati che da tempo avevano già pensato in proprio a come premunirsi da quelle ondate migratorie che essi considerano tsunami. Per proteggersi così non solo da quei migranti che provenivano e proverranno dal medio-oriente e dalla Siria tuttora dilaniata dalla guerra, ma anche, naturalmente, di quelli che continuano a fuggire dalla guerra, dalla miseria e dalle malattie da tempo cronicizzate in alcuni paesi dell’Africa, soprattutto quelli dall’area subsahariana. Si parla, si riparla e si riparlerà insomma di soluzioni, anche con il sostegno di paesi terzi, per rendere più efficaci i controlli alle frontiere per le registrazioni, per l’accettazione delle richieste d’asilo, per l’accoglienza o per i rimpatri.
Nello specifico si ridiscuterà soprattutto della possibilità di evitare che solo lo stato d’approdo debba occuparsi della totale gestione e della sistemazione dei profughi. Ma quale legge, quale organo europeo può obbligare uno stato sovrano, ancorché membro dell’Unione, specie in periodi di crisi economico-pandemica come l’attuale, a ricevere una determinata quota di richiedenti asilo? Si consideri a tal proposito la complicata questione relativa alla direttiva europea sulle balneazioni. Probabilmente nessun organo istituzionale potrà farlo se non trova nella coscienza degli uomini di governo e degli stessi cittadini europei un a priori, cioè la condizione della sua possibilità. Così come, ricordava già Elias in quel suo breve saggio del 1985, riflettendo sulla guerra dopo quarant’anni di pace in Europa, né un tribunale internazionale né le sanzioni economiche imposte da una coalizione di alcuni stati possono costringere un altro stato a desistere dai propri propositi di invasione militare, se non ricorrendo – lo vediamo anche oggi con il conflitto russo-ucraino – a un’altra guerra.
3. L’assurdità illogica dell’ambiguo agire umano, preso nella contraddizione tra le ragioni geopolitiche del tradizionale furore espansivo ed egemonico che ha nella guerra l’unica modalità risolutiva dei contrasti, e le ragioni umanitarie imposte dai sommovimenti geofisici che si generano del tutto indipendentemente dalle pericolose azioni umane (sebbene la quantità delle vittime sia determinato anche da precise responsabilità umane), pone l’umanità non, come essa stessa si illude, dinanzi alla propria forza, specialmente quella militare, ma dinanzi alla propria debolezza di fondo.
Oggi essa si trova infatti del tutto impotente e incapace di sfuggire alla forza centripeta generata da quelle contraddizioni: ne è prigioniera come lo stesso Angelus di Klee e di Benjamin (attratto dalle macerie generate dal novum come da una calamita calamitosa), essendo, come vediamo, costretta ad oscillare inerzialmente da un disastro all’altro, quasi che l’uno richiami l’altro: ondeggia e si infrange tra una tragedia geopolitica e una sciagura pandemica, tra un disastro geofisico e una crisi politico-economica, in attesa di andare a sbattere inevitabilmente in un cataclisma sociale, insomma tra un sisma totalmente umano, quale è la guerra, e un sisma del tutto disumano, qual è il fenomeno tellurico. Non potendo umanamente sottrarsi a quest’ultimo, nonostante tutte le precauzioni ingegneristiche, potrebbe almeno provare ad evitare il primo tipo di catastrofe, dal momento che l’umanità si è trovata costretta a sviluppare una propria forma di pensiero e di ragione. Purtroppo, però, il dramma specificamente umano risiede nel fatto che questa stessa ragione, come si è fin qui visto, benché sia in grado di ideare e di delineare le condizioni per la salvezza dell’umanità – come fa Kant nel suo saggio sulla Pace perpetua, come si vede nella Costituzione italiana, nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nei trattati e nei negoziati –, tuttavia essa non solo si dimostra incapace di realizzarle, ma è irresistibilmente e inspiegabilmente attratta dalla propria autodistruzione. E ciò spinge uno studioso come Elias ad ipotizzare che solo forse quel resto di umanità che sopravvivrà a una incombente guerra nucleare si vedrà costretto a creare soluzioni pacifiche per gli inevitabili conflitti tra gli uomini. Ciò per dire che solo dinanzi o dopo la dissoluzione di buona parte dell’umanità quel resto, non di giusti ma di fortunati, sarà forse costretto a modificare e a migliorare la propria humana conditio.
Sicché, proprio alla luce di quel possibile resto, di quel rimasuglio di umanità che alla fine potrebbe rimanere dopo l’edizione nucleare del mabul – il diluvio universale che potrebbe riportare al tohu vabohu, alla terra vuota e informe, desolata tenebrosa –, siamo ricondotti a quella origine biblica nella quale viene paradigmaticamente rappresentata la scena madre dalla quale discende anche quella che oggi rivediamo e riviviamo, in vista di un’improbabile catarsi, con la guerra in Ucraina. Identica anche nel mito è anche la dinamica che coinvolge le tre note figure simboliche: Caino, Abele e il loro Signore. Perché, infatti, Caino uccide il fratello? Non solo perché essi appartengono già alla tradizione malefica, alla dannazione, alla maledizione che Dio ha gettato sui loro progenitori a causa della loro presunta colpa, ma perché il Signore, secondo un suo imperscrutabile disegno, mette l’uno contro l’altro, rifiutando i doni di Caino e accettando invece quelli di Abele. E senza alcun dubbio anche nell’attuale scenario russo-ucraino c’è un Signore che, secondo i propri progetti nascosti ai molti, suscita l’odio tra i fratelli.
Franco Di Giorgi