Il teatro, arte che crea l’emozione proprio grazie alla presenza fisica di attori e pubblico, è uno dei settori che sta risentendo maggiormente della chiusura dei luoghi di teatro. E ancora di più vivono un momento di grande difficoltà gli artisti e le artiste indipendenti che già in un contesto “normale” faticano presentare il loro lavoro. La testimonianza di Silvia Ribero, attrice
“Artista indipendente”. Suona come se fossi una persona davvero forte, che va per la sua strada invece di accodarsi a carovane dirette da altri. Suggerisce che tu stia in piedi da sola, che tu non abbia bisogno dei compromessi che fanno li altri, che il tuo successo dipenda esclusivamente dal tuo genio. Più verosimilmente, sei nata in un’era fortemente individualista.
Faccio teatro da quando ero bambina, non mi sono mai fermata, a una certa età ho deciso di provare a farne il mio mestiere, semplicemente perché avevo 19 anni e mi sembrava che se avessi potuto passare la gran parte del mio tempo adulto facendo teatro sarebbe stata una gran bella vita adulta. È stata una scelta di tipo esistenziale. Mi è sempre piaciuto viaggiare e ho un animo leggermente inquieto, quindi le Compagnie e le Scuole che mi hanno allevata in Piemonte non mi bastavano, volevo conoscere come fanno teatro altre culture e conoscere altri modi di fare teatro. Ho incontrato quindi artisti e maestri straordinari, assurdi, generosi, pazzi. Ho guardato a gruppi come l’Odin Teatret, che mi commuovono per il percorso anche di vita – e non solo d’arte – che hanno potuto fare restando insieme, essendo famiglia, costruendo valore anche umano e sociale attorno al lavoro artistico. Pensavo di poter seguire qualcosa di questa tradizione teatrale, fondare un collettivo, creare un gruppo, ma i tempi non sono più quelli.
Eppure c’è BILOURA, nella terra che mi ha adottata da bambina e che io ho ri-adottato a mia volta: la Valchiusella, Ivrea, l’AMI. Uno dei luoghi al mondo dove sento di avere delle radici.
BILOURA se lo guardi sulla carta è sfavillante: residenze artistiche in mezzo mondo, scambi artistici internazionali, performance dovunque, riconoscimenti, progetti locali che vanno benone. Dietro c’è un’associazione culturale no profit che non muove più di 10.000€ l’anno e che non riesce a pagare tutte le ore lavorate alle persone che la gestiscono. Anche la mia carriera d’attrice segue lo stesso meccanismo di verità non dette: ho fatto tanto, in tanti luoghi anche prestigiosissimi, lavorato con registi importanti, ho creato il mio collettivo che funziona, ho una identità artistica, porto avanti una ricerca. Dietro c’è che nessuno legge il mio c.v., e che l’essere stata donna, under35, residente in una zona decentrata non mi ha mai portato 1€, a differenza di come si sente millantare. Perché aveva ragione un altro eporediese – Cosmo – quando diceva da non so più quale palco che è una bugia strutturale quella secondo la quale il mondo è in grado di premiare tutti i meriti che abbiamo, e di conseguenza il successo (che da noi equivale a soldi e fama) è merito tuo e allora anche il fallimento – negli stessi termini – sarà colpa tua, vuol dire che non avevi abbastanza meriti. Grande bugia, molto violenta, eppure non è scontato riconoscerla e uscirne, scardinarla dentro di sé. Ancora più difficile poi, è scardinarla anche nel rapporto con il fuori da sé.
Sembra che io mi stia lamentando, per tutto lo sforzo che c’è dietro i “successi”, che io sia una di quelle persone ormai frustrate dal sistema, che sta per mollare tutto.
Invece no. Io sto bene. Benissimo. Io amo quel che faccio e sono felice e grata di essere arrivata al punto che posso vivere di questo.
Nonostante i famosi scheletri nell’armadio, faccio la vita che sognavo quando ero ragazzina e avevo sogni grandi, chi c’è più felice di me? Trovo successo nel fare di per sé, nel raggiungere piccoli obbiettivi consequenziali che mi rendono sempre più la persona che voglio essere, l’artista che voglio essere, la donna che si piace allo specchio, che potrebbe morire domani senza troppo rimpiangere. È un percorso pieno di errori, è un percorso pieno anche di compromessi. Ma se i primi sono necessari e positivi per l’avanzamento, mi pongo la questione della necessità e dell’utilità dei secondi. Tra questi c’è la falsità. Della quale sono stanca. Forse perché comincia a essere troppa per me, forse perché credo che, in fondo, sia inutile. Se sei un’artista indipendente significa che sei un’artista e anche che hai un’impresa, piccola o piccolissima. Di conseguenza sei un’artista, ma devi dialogare col business dell’arte (che non è la stessa cosa che dire il mondo dell’arte), quindi dovrai fare i conti con tutto quanto è richiesto dal sistema capitalistico in cui si muovono le economie occidentali, compresa l’economia dell’arte; potrai sganciartene ogni tanto, ma in generale non potrai prescinderne.
Ed è qui che comincia… La storia che vorrei raccontare che non è sfavillante e quindi non trova lo spazio per uscire. È vera, ma non brilla, non è kool e non è wow, eppure sento il bisogno di trovare uno spazio per raccontarla. Il mio bisogno viene probabilmente dalla nausea che mi prende di dover sempre far finta che tutto il dietro non esista. Un tabù. Non ne parliamo che tra di noi, a bassa voce. Come se noi che lavoriamo nel mondo dell’arte volessimo a tutti i costi nascondere sotto il tappeto tutto ciò, non so se ce ne vergogniamo o se sia perché abbiamo l’idea beota che se lo diciamo a voce alta saremo meno artisti, meno puri, meno veri.
Se vuoi che i teatri/festival/rassegne/ecc ti invitino (= se vuoi portare il tuo lavoro al pubblico, far avvenire questo incontro), dovrai sapere come comunicare e presentare il tuo lavoro.
Perché a oggi la domanda è inferiore all’offerta: i teatri (come le gallerie, le etichette musicali, ecc) sono sommersi di artisti che vorrebbero e sono molto meno sommersi di pubblico che pagherebbe volentieri per. Perciò selezionano, filtrano, setacciano, scelgono con attenzione. Presentare al meglio il tuo lavoro in teatro passa da mezzi che non sono teatrali per niente, e cioè: le pubbliche relazioni. Il tutor dell’Assessorato alla Cultura della Regione Piemonte disse il tuo mercato lo devi avere nella rubrica del telefono. I video di altissima qualità; le foto altamente accattivanti e omologate a una certa estetica, cioè quelle che vendono di più al momento; dossier scritti in maniera che incontrino i bisogni dei bandi a cui i teatri hanno partecipato per avere i finanziamenti con cui pagano il tuo spettacolo; il numero di follower che hai sui social (= quanta gente pagante sei potenzialmente in grado di portare a teatro) e – last but not least – ti viene richiesto di convincere che sei speciale, che tu hai qualcosa che nessun’altra ha, cioè ti viene imposto di essere competitiva. I riconoscimenti sul tuo cv e il concreto lavoro che fai in scena sono importanti, ma quanto il resto di cui sopra, non di più.
L’artista indipendente Silvia Ribero è felice di fare teatro, è felice di avere fondato BILOURA ed è felice che la sua crescita artistica si accompagni a una crescita professionale.
La stessa artista indipendente passa più tempo a fare comunicazione, fundrising, organizzazione e pubbliche relazioni, che a fare l’attrice. Passa più ore davanti al PC che in scena e sala prove, e ancora non riesce a remunerare se stessa e le altre come si converrebbe. E come me, sono la stragrande maggioranza degli artisti indipendenti. Perché sembra che abbia cittadinanza solo ciò che può essere raccontato in maniera glamour, in maniera eccezionale, come se gli artisti fossero supereroi e dive, sempre e comunque.
L’artista indipendente fa tante cose belle, mentendo elegantemente e spesso su come fa quel che fa. Poi, sovente, rosica in silenzio, in segreto, maledicendo il sistema che corteggia. E così vive male, mi dico io. Qualcuno tra noi riesce a fare il salto quantico, accettando senza ipocrisie di essere anche un businessman accanto all’essere un artista, sapendo cogliere le occasioni e gli insegnamenti di questa realtà e soprattutto: ritrovando la motivazione per cui stare tutte quelle ore al computer. Ma per fare ciò, io sento il bisogno di riconoscere e denunciare la falsità di cui sono impregnati gli spazi pubblici del teatro, il discorso pubblico, il modo in cui ci raccontiamo o al quale acconsentiamo, quindi sì, anche le bacheche nei nostri canali social, dove tutto sembra dover per forza essere una copertina patinata, indipendentemente da cosa c’è sotto. Quando si trova – e per oggi mi piace pensare che sia così – lo spazio per dire la verità anche fuori dal teatro e anche a riguardo di tutto quanto sta attorno al teatro, io ritrovo anche il perché. Sì, creo: do una forma a ciò che mi tormenta, a ciò che mi esalta, a ciò che mi fa arrabbiare, a ciò che mi innalza, a ciò che non capisco. Quella forma – che chiamiamo opera d’arte – parte da me, ma non è per me. È fatta per essere condivisa, il teatro è un rito sociale, di comunità, non vale niente se non c’è nessuno. Ecco perché, sì, faccio anche le ore al PC: perché ciò che tormenta, esalta, infuria, innalza, perplime me, con tutta probabilità fa lo stesso anche con altre persone.
E allora muoio dal desiderio di incontrarvi. Sì! A teatro! Dove altro non saprei! E lì avere lo spazio-tempo di raccontarci cosa ci succede, consolarci, ritrovarci, condividere le risposte che abbiamo trovate. Aiutarci, infine, le uni gli altri, a vivere. Per rendere possibile questo incontro, ho bisogno di essere un’artista che si dà il permesso di creare ciò che trova necessario e urgente, e al contempo che si spende in tutte le modalità richieste dal sistema al fine di incontrare il pubblico. Ma è davvero necessario – per incontrarci – che io mi debba raccontare in certi termini, omettendo, falsando e omologando? Posso fare una rivoluzione in questo senso? Possiamo farla insieme? Si può anche cercare di riformare il sistema, se non ci piace, ma non è possibile se continuiamo a essere così falsi. Se non abbiamo nemmeno il coraggio di ammettere che ne siamo parte, difficilmente troveremo il coraggio, le forze, gli strumenti e le capacità per riformarlo. Non pretendo di parlare per tutti gli artisti indipendenti, ma so che sto dicendo la verità della stragrande maggioranza di questi. Anche se dissimulate, io vi vedo, perché sono come voi. E perché faccio teatro e il mio mestiere esige che io sappia distinguere il vero dal falso.
Silvia Ribero