La zona d’interesse

Visti da noi

Il film di Glazer premiato con due Oscar.

Operare per contrasti, raccontare attraverso gli opposti, evidenziare una realtà puntando sul suo contrario. Questa è la scelta narrativa del regista Jonathan Glazer per descrivere l’orrore dell’olocausto, una scelta mediata anche dal libro omonimo di Martin Amis da cui è tratta la vicenda.
Questo film, che ha appena vinto due Oscar, uno per il miglior film internazionale, l’altro per il miglior sonoro, evoca e consegna, proprio a quest’ultimo, il compito di ricordare lo sterminio degli ebrei. La zona di interesse è divisa da una cinta muraria: da una parte le torrette di Auschwitz, visibili sullo sfondo dell’inquadratura insieme al fumo dei forni crematori e poi, soltanto udibili, i rumori degli spari delle guardie naziste, i latrati dei cani e le urla di disperazione e di dolore dei prigionieri. Dall’altra parte, invece, la zona del benessere che ospita il tranquillo e distaccato, ma sarebbe meglio dire oscenamente indifferente, quotidiano della numerosa famiglia di Rudolf Hoss, il comandante dell’attiguo campo di concentramento.
Il film è una sorta di gestalt dove la parte visualizzata è quella signorile dell’ambiente domestico, abitazione con tanto di camere linde, pasti abbondanti, servitù polacca pronta al dovere, giardino fiorito e ben curato e la parte, solo sonoramente percepita, è quella della morte prodotta industrialmente, dello sterminio di massa gelidamente programmato. Tanto più la famiglia del comandante vive, con incredibile noncuranza, i suoi privilegi, tanto più mostruosa risulta la condizione infernale che si consuma al di là del muro.
Questa è l’idea del film, un’idea che si dilata nei ritmi di una regolare e scandita normalità, una normalità che la famiglia del comandante Hoss tutela all’insegna di un annichilimento di coscienza, una normalità fatta di gesti ripetitivi e casalinghi a cui corrispondono i tempi naturali della lentezza.
Affinché questa lentezza non risuoni come mancanza di accadimenti e quindi soporifera per la platea, il regista si affida a una gestione estetica della stessa, dando ampio risalto alla bellezza formale del film. Ora ci si può chiedere come si possa pensare specificatamente alla “nitidezza del bello” quando ci si confronta con la scabrosità dell’olocausto, ma è proprio attraverso l’arte delle immagini, nella loro composizione pittorica, nella cura delle inquadrature (non ce n’è una che sia stilisticamente sottotono) che il film tiene desta l’attenzione sulla forza del suo messaggio, sulla profondità del contenuto.
Convivere a fianco del genocidio senza farsene minimamente influenzare, asservire l’anima alla pratica dell’indifferenza, fare finta di nulla, confondere le grida d’aiuto con gli schiamazzi dei bambini che giocano nell’isola del paradosso felice al di qua del muro, è l’imperativo della famiglia del comandante, è il suo vivere in una sorta di sospensione autoassolutoria, di cronica assuefazione all’echeggiare dell’orrore. In questo contesto è pressoché impossibile ignorare i sintomi di complicità che albergano anche in noi. Quante volte, nel momento presente, intriso di nuove guerre e carneficine, siamo stati analogamente indifferenti, quante volte voltiamo lo sguardo e, sordi ad ogni richiamo, sorvoliamo sul dolore e sulla morte altrui?
Questo film è un monito, ci tocca da vicino, ci conduce nell’abisso della disumanità perché in quella deriva si possa spiare anche l’insorgere della nostra.
Tecnicamente il film lascia liberi gli attori di agire in modo naturale, senza condizionamenti di regia legati alla posizione delle cinecamere. Le camere sono numerose e nascoste, discrete nel riprendere i soggetti in campo da diverse angolazioni, una raccolta di inquadrature tra le quali il regista sceglierà, a posteriori, il punto di vista preferito. Il risultato formale è veramente eccellente, con particolare risalto per quelle inconsuete quanto magnifiche riprese in verticale dall’alto verso il basso.
Certo, e per fortuna, il muro di confine tra il bene e il male non sarà mai una barriera invalicabile. La cenere dei corpi bruciati trasmigra nel vento, se ne infischia del muro e così l’odore dolciastro della decomposizione. A volte è possibile che il comandante Hoss trovi nel fiume, che scorre accanto a casa e dove i suoi figli fanno il bagno, qualche pezzo di scheletro ebreo. Allora il comandante farà uscire precipitosamente i figli dall’acqua sottraendoli all’effetto sporco della contaminazione. Anche un rapporto sessuale e clandestino di Hoss, con una ragazza polacca, viene svelato soprattutto attraverso la meticolosa pulizia, post coito, dei genitali maschili. Il lavaggio della purificazione, che preserva intatta la supremazia dell’ideologia e della stirpe nazista.
Se una tale realtà dell’orrore è illustrata nel film attraverso le immagini a colori, allora quelle che concernono le fiabe raccontate da Hoss ai suoi figli, prima di dormire, o i sogni stessi che la bambina fa non possono che essere visualizzate in negativo. E’ un’altra scelta stilistica conforme all’indirizzo della regia e al rovesciamento del linguaggio. Il finale del film, i conati di vomito di Hoss rivelano, a mio parere, come il male non abbia il predominio definitivo sulla coscienza.
Qualche contaminazione affiora anche in Hoss; il genocidio, per quanto caparbiamente rimosso, suscita qualche nausea e sollecita rigurgiti di rifiuto.
Ancora una parola a riguardo degli espedienti stilistici: il buio prolungato dell’inquadratura completamente nera all’inizio del film, che ha suscitato qualche brusio in sala, o quella completamente rossa, nel corso dello stesso, sono indizi grafici che conviene indagare preventivamente, attraverso la lettura di recensioni utili a collocare il film nella giusta prospettiva.

Pierangelo Scala