Nell’ultimo consiglio dei ministri del 10 ottobre, il governo Draghi, a Camere sciolte, ha approvato una bozza di legge delega sulla riforma della non-autosufficienza che fa il paio con due delibere della Giunta Regionale del Piemonte dove è stato inserito un tetto ai tempi di degenza nelle Rsa e alla spesa. E’ l’abbandono delle persone malate e non-autosufficienti, denunciano le parti sociali.
I provvedimenti del governo uscente e della regione Piemonte in materia di continuità di cura dei malati non autosufficienti trasferiti dagli ospedali alle Rsa, hanno provocato le giuste proteste e denunce della parti sociali e delle associazioni che operano nell’ambito sociale e della salute. Provvedimenti che riguardano tutti noi, presi durante l’estate e l’inizio di questo autunno caldo nella speranza forse che passassero inosservati.
Le denunce delle parti sociali e delle associazioni
I sindacati pensionati di Cgil, Cisl e Uil denunciano: “La Regione Piemonte infrange le promesse nei confronti degli anziani non autosufficienti a partire dall’aumento delle rette in Rsa. Gli ospedali possono dimettere gli anziani non in fase acuta ma quando gli stessi non sono del tutto guariti, inviandoli alle Rsa che non sono attrezzate in questi casi per un’adeguata assistenza sanitaria: non è presente un medico ed in media sono previsti 24 minuti di assistenza infermieristica ogni 24 ore. A nulla è valso da parte delle organizzazioni sindacali chiedere standard di servizio adeguati, come quelli già previsti per le strutture Cavs (Continuità Assistenziale a Valenza Sanitaria), centri che prevedono posti letto extraospedalieri per il percorso di continuità sanitaria. Il destino non è l’ospizio, ma un modello di assistenza socio-sanitaria territoriale che privilegi la domiciliarità, abitazioni protette, trasformi le Rsa in centri socio-sanitari con reparti dedicati a pazienti molto gravi bisognosi di cure sanitarie.” Le organizzazioni sindacali concludono il loro comunicato “promettendo” ulteriori iniziative e mobilitazioni.
Sulle delibere regionali è intervenuto ad inizio agosto anche il segretario regionale di Rifondazione Comunista, Alberto Deambrogio: “Ci risiamo. Cirio, Icardi e la Giunta regionale non perdono occasione per attaccare i diritti esigibili di cura. Con la Delibera 1-5265 prevedono infatti l’interruzione del diritto alle cure socio-sanitarie dei malati cronici, anziani e non autosufficienti, che non siano in grado di tornare al domicilio. Dopo i primi 60 giorni in struttura si passa brutalmente a una valutazione economica tramite ISEE e alla retta a totale carico del malato e della famiglia. Siamo di fatto di fronte ad una sorta di tutela sanitaria a tempo, che tra l’altro è in pieno contrasto con la normativa nazionale vigente. La DgR 1-5265 va subito tolta di mezzo e va ripristinata la pienezza del diritto”.
Le associazioni Alzheimer Piemonte, Amici Parkinsoniani Piemonte e Fondazione promozione sociale Onlus sono passate dalle denunce verbali ai fatti ricorrendo al Tar del Piemonte contro le delibere regionali che “negano la continuità delle cure”.
Nella denuncia si legge che con il loro impianto le decisioni regionali violano i principi dell’articolo 32 della Costituzione («tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»), quelli della legge 833 del 1978 sul divieto di fissare una «durata» a priori del percorso di presa in carico sanitaria e quelli dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lea) del 12 gennaio 2017, che non prevedono interruzioni di prestazione tra le fasi ospedaliere e di riabilitazione e quelle di «lungoassistenza» in Rsa.
Sono stati posti limiti di tempo non secondo parametri medici, ma a seconda della situazione economica della persona.
La durata massima del percorso di continuità post fase acuta della malattia coperto dal Servizio Sanitario nazionale in Rsa tosufficienti, è stata limitata a 60 giorni. Trascorso questo periodo si rimanda alla discrezionalità delle Unità di valutazione geriatrica (UVG) che prendono in esame la condizione socio-economica (Isee) dei malati e dei loro nuclei famigliari per autorizzare la continuazione in convenzione con l’Asl. Chi non riceve il via libera da parte dell’ASL dovrà pagare la retta per intero (circa 3.000 euro al mese), questo non secondo parametri medici, ma a seconda della situazione economica della persona.
“Il possesso della casa per esempio è giudicato una delle condizioni meno favorevoli per avere la convenzione“, spiega Andrea Ciattaglia della Fondazione promozione sociale, “Chi ha un conto in banca con un po’ di sostanza e una casa, l’ASL lo pone in una situazione di minor urgenza dell’intervento. Questo può voler dire anni di limbo durante i quali la persona sta male, perché dal punto di vista sanitario nessuno mette in discussione la gravità. In quell’intermezzo il malato sta a casa pagando l’assistenza o deve pagare la retta della RSA“.
Resistenza amministrativa
Le associazioni che hanno promosso il ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale hanno per questo già avviato una sorta di “resistenza” amministrativa: dopo il 60 giorno i malati dovrebbero pagare la retta, ma in questo caso si procede con un’istanza verso l’ASL e l’UVG nella quale si fa presente che il malato deve essere valutato per le sue condizioni di salute.
“A giugno sono partiti diversi casi che abbiamo seguito“, spiega Ciattaglia, “Questi hanno contestato l’interruzione del percorso a 60 giorni e in questa fase stanno pagando il 50% della retta e per il restante 50% avvisano la Regione che deve pagare la sua parte“.
Il tetto di spesa è anticostituzionale
Le delibere della giunta regionale fissano il tetto di spesa annuo per le convenzioni RSA a 265 milioni di euro (pari a quello del 2019, solo il il 3% del bilancio sanitario regionale). “La prestazione sanitaria non può essere vincolata a una spesa, ma a un fabbisogno e all’esistenza di un livello essenziale“, sottolinea Ciattaglia, “La Corte Costituzionale ha detto che se c’è un livello essenziale non vale il vincolo di spesa. Il legislatore deve aver previsto anche le risorse per fare fronte a tutto quel livello essenziale“.
Il costo di una RSA è di circa 100 euro al giorno, che viene dimezzato se si è in convenzione perché il sistema sanitario nazionale si fa carico del 50% della spesa. Questo è quanto prevedono le norme nazionali, ma in Piemonte le due delibere oggetto del ricorso stravolgono questo meccanismo.
E tutto questo accade a fronte di una «vera e propria emergenza rappresentata dalle centinaia di migliaia di malati abbandonati ai loro familiari dal Servizio sanitario nazionale: al prezzo di sacrifici finanziari, sociali e umani (specie per la componente femminile delle famiglie) nella gran parte dei casi insostenibili. – scrive Francesco Pallante su Il Manifesto del 20 ottobre – Un’emergenza, oltretutto, destinata ad aggravarsi nel tempo, a causa del progressivo invecchiamento della popolazione; e dunque da affrontare non con misure-tampone, ma tramite una riforma strutturale del sistema, idonea a rivitalizzare le chiarissime parole della legge n. 833/1978 per cui spetta al Servizio sanitario nazionale farsi carico, tra l’altro, della “diagnosi e cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la fenomenologia e la durata”»
La Regione Piemonte a fronte di un bisogno sociale e sanitario crescente risponde mettendo tetti e limiti ai servizi. Questo si chiama disprezzo delle persone, di quelle più fragili e nel loro momento più critico.
Urge una forte mobilitazione a livello regionale contro queste politiche sciagurate della giunta piemontese che stanno distruggendo salute, sanità e stato sociale.
Cadigia Perini