Se la repressione aumenta le lotte serrano i ranghi. La lezione degli studenti e la riconcettualizzazione della protesta.
Le proteste in solidarietà alla Palestina che da alcuni mesi infiammano le università di Americhe e Europa esplodono anche a Torino. Dopo le università di Milano, Napoli e Padova, nella mattinata di lunedì 13 maggio tende e striscioni sono comparsi anche a Palazzo nuovo, all’interno del Politecnico e nella facoltà di Fisica del capoluogo piemontese.
La protesta, già annunciata domenica 12 al Salone del libro, inaugura la settimana di manifestazioni studentesche che culminerà nel corteo in solidarietà alla Palestina del 18 maggio, organizzato dal coordinamento Torino per Gaza in occasione dei 76 anni della Nakba.
Se è pur vero che esperienze di solidarietà verso la Palestina e di boicottaggio del regime israeliano sono sempre esistite a Torino, anche con un certo successo di numeri, da anni il tema era meno acceso. Non tanto per un cambio di sensibilità quanto per un certo grado di rassegnazione. L’inizio dell’invasione della Striscia e gli 8 mesi di genocidio in corso, trasmessi in diretta grazie ai social network e al sacrificio dei tanti giornalisti morti nel conflitto, hanno però bruscamente invertito questa tendenza.
Da mesi le manifestazioni pro Palestina a Torino hanno ritrovato l’antico vigore, al contempo ponendosi come punto d’incontro trasversale per diverse individualità, anche lontane tra loro per tematiche e metodi. Sotto la bandiera palestinese e si sono raccolti così i movimenti più rumorosi degli ultimi anni, da quello transfemminista a quello ambientalista, secondo un principio di intersezionalità che vede le lotte come interconnesse tra loro e il ribaltamento dei rapporti di potere come obiettivo. Una prospettiva per nulla scontata, figlia di decenni di attivismo, movimenti e assemblee che nella città non hanno mai smesso di moltiplicarsi.
A questa riunificazione e rivitalizzazione delle lotte ha certo contribuito anche l’attuale assetto politico nazionale e le sue malcelate tendenze da regime, così come la narrazione dei grandi media sul conflitto, talmente sbilanciata da perdere definitivamente di credibilità agli occhi di molti.
Un grande ruolo lo giocano poi le tante figure pubbliche, intellettuali e non, che si sono esposte in prima persona per dare voce alla causa palestinese. Lo stesso annuncio delle mobilitazioni all’interno del Salone è stato possibile grazie alla solidarietà della scrittrice e attivista transfemminista Valeria Fonte, che ha rinunciato al proprio spazio mettendolo a disposizione dello stesso comitato che il giorno prima davanti al Salone aveva manifestato, venendo caricato dalla polizia, ma incassando la solidarietà di autori come Christian Raimo e Zerocalcare, usciti per raggiungere i manifestanti.
In definitiva, all’innalzarsi della violenza e della repressione, fenomeno al quale assistiamo costantemente ormai da anni un po’ in tutto il mondo e che fino a poco fa sembrava inarrestabile, le lotte trovano inaspettatamente una nuova vitalità. Non solo. Assistiamo anche a un graduale mutamento di prospettiva sul concetto stesso di protesta. Un mutamento al quale ci costringe la resistenza del popolo palestinese, che non si è mai ridotto a ruolo di vittima passiva ma anzi ha sempre combattuto con ogni mezzo possibile contro il suo oppressore.
“Vittime mai”, il libro che Fonte avrebbe dovuto presentare domenica, parla anche di questo. Del rifiuto dell’essere solo e unicamente vittima, in balia tanto della violenza di chi esercita il potere quanto della pietà paternalistica, che riduce proprio la vittima a mero attore passivo. Un rifiuto che è parte del percorso di autodeterminazione necessario a diventare invece parte attiva, a rispondere colpo su colpo al potere, con ogni mezzo necessario. Perché il senso delle proteste, in particolare quelle di piazza, non è solo esprimere un’opinione. È lanciare un messaggio chiaro: oggi siamo scesi in strada pacificamente, se le cose non cambiano domani potrebbe essere diverso. Un concetto che nello stanco dibattito politico italiano, dove qualsiasi opinione deve dogmaticamente essere preceduto dal mantra del “condannare la violenza sempre e comunque”, non si vede da decenni. Ma la violenza è anche e prima di tutto quella del Potere, un Potere che definisce come violenza qualsiasi forma di contestazione, sia essa fatta con armi, sassi, uova, parole o gessetti. La verità è che nessuna protesta contro il Potere che passi solo dai canali che il Potere stesso le concede potrà mai vincere. Una lezione che ci insegna la Storia, e che gli studenti che oggi occupano le università sembrano aver imparato.
Lorenzo Zaccagnini