Il primo incontro del 16 marzo della Palestra Politica con la prof. Valentina Pazè
Parlare di democrazia e di populismi, oggi come oggi, non è un’impresa facile. C’è sempre il rischio di cadere in luoghi comuni o di dire delle ovvietà, ma non è quanto accaduto durante la serata del 16 marzo allo Zac! d’Ivrea.
La professoressa Valentina Pazè, docente di Filosofia Politica all’Università di Torino è infatti riuscita ad affrontare le tematiche senza recitare la solita lezione accademica, senza annoiare, ma soprattutto riuscendo a mettere in evidenza i lati più problematici e ambigui dei sistemi democratici.
Chi, oggi, si sognerebbe di non riconoscere la democrazia come la migliore forma politica mai realizzata? La risposta è nessuno. Eppure, sostiene la professoressa Pazè, diverse operazioni politiche, in Italia, in Europa come nel resto del mondo, hanno come obiettivo quello di svuotarne il senso. «Nessuno pensa di andar contro il suffragio universale, ma esistono diversi meccanismi per scoraggiare la partecipazione: negli Stati Uniti, ad esempio, per alcune votazioni è necessario registrarsi; in diversi stati, inoltre, sono stati introdotti regolamenti molto rigidi per poter accedere al voto». Anche i sistemi elettorali contribuiscono a motivare o demotivare la partecipazione democratica, in quanto a seconda che ci si trovi in un sistema maggioritario o in uno proporzionale i voti hanno un peso differente: «l’Italicum, per citare un esempio, sbilanciava il peso dei voti tutto a favore di un unico partito», diminuendo l’importanza degli altri.
Scoraggiare gli elettori ad esercitare i loro diritti politici è sempre stato l’obiettivo dei poteri costituiti e ciclicamente, ha ricordato la professoressa, torna in auge il tema del voto dei poveri e delle masse. In filosofia politica esiste una lunga tradizione di pensiero che non vede di buon occhio il voto delle masse, dei poveri o degli ignoranti. Lo stesso Kant riteneva che solo un uomo dotato di autonomia morale potesse votare e che solo una persona economicamente indipendente avrebbe potuto diventare moralmente autonoma. «C’è una lunga resistenza nei confronti dei poveri o degli ignoranti ad accedere al voto, in quanto c’è paura delle masse».
È allora che alcuni poteri pretendono di poter agire senza tener conto dei voti popolari. Pazè, senza mezzi termini, ha portato il caso greco: «Pensate a quello che è accaduto in Grecia: il programma redistributivo di Tsipras non è stato realizzato perchè le istituzioni europee ne hanno posto un freno». Lo stesso Mario Draghi, nel 2013, cercò di rassicurare i mercati affermando: “Le riforme strutturali andranno avanti con il pilota automatico”. Ma, viene allora da domandarsi: a cosa servono le elezioni?
La reazione contemporanea ai cosidetti elitismi consiste nei populismi, ma, mette in guardia Pazè, questa parola è oggi talmente abusata che non è più un valido strumento per analizzare la realtà: ha come unico scopo quello di “insultare” l’avversario politico.
E come si può, allora, definire il populismo? La professoressa ha provato a darne una definizione più specifica: il populismo consiste nell’assolutizzare il popolo senza accettare che la sua volontà possa essere esercitata nei limiti della legge. Caratteristica tipica dei populismi consiste, inoltre, in un forte legame tra leader e popolo, eludendo ogni rappresentanza intermedia (come il Parlamento o i partiti). Gli uomini in grado di trascinare le folle per adulazione raggiungono questo obiettivo, perché ripetono al “popolo” ciò che il popolo vuole sentirsi dire.
È in quest’intreccio di demagogia e adulazione nei confronti di un leader che si annida il seme del populismo. Incoraggiare l’idea dell’uomo solo al comando alimenta questa visione della politica, come sottolineato dalla stessa Pazè: «pensiamo alle riforme degli enti locali degli anni ’90: con l’elezione diretta del sindaco sono stati prodotti gravi danni, perché si è fatta passare l’idea che l’uomo solo al comando sia un bene».
Forse, non aveva torto il filosofo del Novecento Hans Kelsen quando, provocatoriamente, sosteneva che “la democrazia è assenza di capi”.
Andrea Bertolino