La crisi climatica e noi

Dalle proteste per il clima al clima delle proteste, dalla casa in fiamme alla capanna nel bosco.

La società industriale e le sue conseguenze
sono state un disastro per la razza umana

T. J. Kackzynski – La società industriale e il suo futuro

La nostra casa è in fiamme

Negli ultimi mesi l’Italia da Nord a Sud ha sperimentato sulla propria pelle gli effetti devastanti del cambiamento climatico.
Grandinate, tempeste, alluvioni e incendi hanno colpito gran parte delle regioni, e quelle risparmiate da eventi estremi sono state comunque investite da un’ondata di caldo fuori dalla norma, con le temperature più alte mai registrate dal genere umano. Col finire di luglio possiamo sperare di aver superato il peggio. Almeno per quest’anno, almeno fino alla prossima estate.
Ma dato che piove sempre sul bagnato (o brucia sempre sul secco) al disastro ambientale si aggiunge il disastro politico, con il governo più a destra dalla fine della caduta della monarchia a oggi e ministri che anche di fronte al disastro continuano a promuovere scetticismo e negazionismo.
È di poco tempo fa la notizia dei 16 miliardi, destinati a combattere il dissesto idrogeologico, alla rigenerazione del verde urbano, al passaggio a fonti energetiche sostenibili e all’efficientamento energetico, tagliati dai fondi del Pnrr.
Una notizia che fa arrabbiare, ma che non dovrebbe stupire. La destra reazionaria di tutto il mondo ha già dimostrato durante la pandemia globale di non farsi alcuno scrupolo a trasformare una crisi in una battaglia di bandiera, anche a costo di ridurre il mondo in cenere, purché si possa poi governare sulle macerie.
Fortunatamente, non tutti però sono disposti ad accettare il disastro senza combattere.

Le torride estati del nostro scontento

Nel luglio del 2001, più di vent’anni fa, si svolgevano i fatti del G8 di Genova, definiti da Amnesty International “la più grande sospensione dei diritti democratici in Occidente dopo la Seconda Guerra mondiale”.
Nel mese passato in molti hanno fatto notare come le previsioni dei movimenti presenti in piazza in quei giorni si siano poi sistematicamente avverate: il capitalismo selvaggio, lo strapotere delle multinazionali e l’ipersfruttamento delle risorse avrebbero portato a disastri di dimensioni globali. La crisi climatica avrebbe portato all’innalzamento delle temperature e degli oceani, con conseguente estinzione di centinaia di specie animali, desertificazione dei territori, pandemie e migrazioni di massa.
Sappiamo tutti quale fu la risposta delle istituzioni a quelle proteste, e a vent’anni di distanza, mentre il clima continua a cambiare, la risposta dei governi rimane sempre la stessa.
Da pochi giorni si è conclusa l’Alta Felicità, festival musicale del movimento No Tav, al quale si accompagnano da sempre cortei e tentativi di attacco al cantiere.
Nato tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta come protesta territoriale, il movimento No Tav è nel tempo divenuto simbolo e ispirazione per giovani ribelli di tutta Italia, tramutandosi in una lotta più ampia e in una critica diretta alla società industriale, alle grandi opere e allo sfruttamento dei territori. Questo sia per l’enorme durata temporale del movimento, che ha ormai superato i trent’anni di protesta ininterrotta, sia per un certo livello di radicalizzazione, non avendo mai rinunciato a un certo livello di conflitto, legittimando il sabotaggio e l’azione diretta contro il cantiere come mezzi di lotta. Questa evoluzione del movimento, da sempre stigmatizzata come ingiustificabile violenza da partiti e giornali di quasi tutti gli schieramenti, non è figlia del caso. Per più di trent’anni le istituzioni hanno rifiutato qualsiasi forma di ascolto e confronto con il movimento No Tav, utilizzando il territorio come laboratorio repressivo sperimentale, sia in termini di tecnologie che di espedienti giuridici. Ma mentre in Val di Susa avvenivano gli ormai abituali scontri a colpi di petardi e sassi da una parte e lacrimogeni ad altezza uomo dall’altra, un secondo evento, meno ripreso dai media, si svolgeva nel centro di Torino.
Nel parco Pietro Colletta si teneva il Climate Social Camp, una tre giorni di campeggio ecologista con workshop, laboratori e incontri sul cambiamento climatico e sulle forme di resistenza possibili.
I principali promotori dell’evento sono in questo caso i movimenti ecologisti più recenti, nati dalle proteste che negli ultimi anni hanno portato un incredibile numero di giovani a scendere in piazza per il clima. Tra di essi i Fridays For Future, fondati nel 2018 dopo il notevole successo ottenuto dall’allora giovanissima attivista svedese Greta Thumberg, e gli Extinction Rebellion, che si differenziano dai FFF per un approccio più improntato alla disobbedienza civile e un rimando più esplicito al rischio di estinzione umana, presente nel nome stesso del movimento.
Questi ultimi in particolare sono stati negli ultimi anni attori di una serie di proteste simboliche, tra cui attacchi a colpi di vernice lavabile e striscioni verso statue e monumenti e numerosi blocchi stradali di breve durata.
Pur guadagnando una certa visibilità, tali azioni hanno portato al movimento anche una buona dose di odio sproporzionato, insulti gratuiti e critiche paternalistiche di chi ci teneva a spiegare i modi giusti di portare avanti una protesta senza dare fastidio a nulla e nessuno, confondendo come spesso accade protesta e propaganda.
Prevedibilmente all’odio sociale ha fatto velocemente seguito una buona dose di repressione istituzionale, subito cavalcata da una destra di governo sempre alla ricerca di nuovi nemici.
Similmente a quanto accaduto col movimento No Tav, lə giovani attivistə di Extinction Rebellion hanno subito brutalità poliziesca e denunce fuori misura, divenendo bersaglio della propaganda reazionaria. Nel suo discorso in Spagna al convegno di Vox, Giorgia Meloni avrebbe esplicitato la necessità per l’estrema destra di reprimere i movimenti ecologisti, sintetizzati dal presidente con il neologismo “eco-follia”.
Peccato che sia FFF che Extinction Rebellion abbiano affermato sin dalla loro fondazione la loro radicale non-violenza, tentando in tutti i modi di non farsi etichettare da media e propaganda come pericolosi sovversivi. In una delle ultime azioni compiute a Torino, con l’affissione di uno striscione dal tempietto della Mole Antonelliana, lə attivistə hanno anche pagato il biglietto per accedere all’interno del monumento. Nonostante questi sforzi però, da mesi i movimenti per il clima vengono raccontati come pericolosi Unabomber, nonostante siano a ben vedere più simili a dei Boy Scout della protesta ambientalista.
E se il paragone vi ha strappato un sorriso, sappiate che non è casuale.

L’eremita nella capanna. Dall’eco-ansia all’eco-follia il passo è breve.

Theodore John Kackzynski, l’eco-terrorista noto come Unabomber (University and Airline Bomber), muore suicida in carcere il 10 giugno 2023, appena due mesi fa. Pensatore inclassificabile, disprezzava sia la destra conservatrice, attaccata a sciocche tradizioni ma entusiasta dei progressi tecnologici, sia (soprattutto) la sinistra progressista, della quale criticava in particolare l’egualitarismo, prodotto sociale e quindi innaturale per eccellenza.
Fu un vero genio: con un quoziente intellettivo di 170, entrò ad Harvard a soli sedici anni, diventando assistente professore di matematica a Berkeley nel 1967, a soli ventiquattro anni. Poco tempo dopo avrebbe dato le dimissioni con una lettera di poche righe. Lo nauseava insegnare ai giovani ingegneri che avrebbero usato le sue conoscenze per il progresso tecnologico, distruggendo così la sua amata natura, le sue amate montagne.
Sarebbe di lì a poco andato a vivere in una capanna di 11 mq in Montana, senza acqua né luce, nutrendosi di ciò che si procacciava. Qui avrebbe iniziato a spedire i pacchi bomba che avrebbero ucciso tre persone e causato diversi feriti, riuscendo nel mentre anche a far pubblicare sui maggiori quotidiani statunitensi il proprio manifesto. Un testo breve ma di assoluta avanguardia, adatto a spiegare i conflitti che oggi viviamo sulla nostra pelle molto più delle ormai insufficienti teorie novecentesche; sarebbe stato involontariamente di ispirazione per stirneriani individualisti, anarchici neo-luddisti, accelerazionisti sotto anfetamine, eco-fascisti e svitati di ogni colore politico.

Kackzynski avrebbe probabilmente deriso Extinction Rebellion, definendoli “sovrasocializzati” e affetti da “complesso di inferiorità”, ma ne avrebbe condiviso suo malgrado l’ansia per la catastrofe imminente. E nonostante la sua particolare forma di individualismo, un misto di volontà di potenza, amore per la libertà e sentimento anti-umano, ne avrebbe condiviso anche la necessità di essere ascoltato. La prova sta proprio in quel manifesto, la cui pubblicazione avrebbe portato involontariamente alla sua cattura. Un manifesto che, nelle sue parole, non sarebbe stato così letto e diffuso se lui stesso non avesse ucciso qualcuno.
Alla fine è solo questo che chiedono i giovani dei movimenti ecologisti. Di essere ascoltati, di essere presi sul serio. Invece di indignarci per le statue colorate o imbestialirci per i blocchi stradali, basterebbe provare a vedere le cose dal loro punto di vista, almeno per una volta. Il punto di vista di una generazione in preda a un’eco-ansia comprensibile, che vede mettere in discussione il proprio futuro non solo in termini economici, ma anche di sopravvivenza stessa della razza umana.
I movimenti ecologisti moderni non sono terroristi, anche se una certa parte politica vorrebbe tanto che lo fossero per poterci speculare sopra. Ci vanno grande lucidità e forza di volontà per non scivolare dall’eco-ansia all’eco-follia, quella vera non quello millantata dal nostro presidente, ma lə giovani attivistə di Extinction Rebellion ci riescono nonostante tutto. Come società siamo fortunati che i movimenti giovanili con i quali dobbiamo confrontarci oggi siano così saggi e al contempo così pieni di fiducia verso l’umanità, ancora convinti che la soluzione possa venire solo da uno sforzo collettivo, ancora decisi a lottare perché ciò accada.
Provare ad ascoltarli è il minimo che possiamo fare. Anche solo per confrontarci in futuro con professori di matematica, artisti, politici, scrittori e scienziati, e non con altri eremiti in altre capanne, così delusi dall’umanità da aver perso qualsiasi desiderio di essere ascoltati.

 

Lorenzo Zaccagnini