La scomparsa del grande regista il 13 settembre a 91 anni
Signor Parvulesco, qual è la sua più grande ambizione nella vita? La domanda la porge lei, Patrizia, interpretata dall’incantevole Jean Seberg nel ruolo di una ragazza americana, neo giornalista per il New York Herald Tribune. Parvulesco è un romanziere di successo intervistato durante una conferenza stampa. Siamo sulla terrazza dell’aeroporto di Orly a Parigi. Parvulesco fissa Patrizia, lentamente si sfila gli occhiali da sole, l’inquadratura riluce nel bianco e nero della pellicola.
“Diventare immortale… e poi morire.” è la risposta che si consegna al taccuino di Patrizia, mentre l’inquadratura sfuma in dissolvenza su una nuova scena di quel cult-movie, senza tempo, che si intitola: “Fino all’ultimo respiro”.
Per rivolgere un pensiero a Godard, mi aggancio a quel “Diventare immortale…e poi morire” che non è solo una frase ad effetto, ma che potrebbe simboleggiare l’intera parabola esistenziale di uno dei più grandi e considerati registi del 900.
Jean Luc Godard sta in quella frase a pennello, lasciandoci eredi della sua opera, in cui traspare tutta la potenza del suo sguardo e tutta la forza del suo ingegno. Godard è immortale nella storia del cinema, che ha rivoluzionato a partire proprio da questo film dove, per primo, ha osato infrangere le regole del linguaggio cinematografico, destrutturandolo e reinventandolo attraverso l’uso di inquadrature insolite (la nuca in primo piano di Patrizia, lo sguardo in macchina del protagonista maschile Michel Poiccard, impersonato da Jean Paul Belmondo al suo film d’esordio), l’impiego della camera a mano, la riesumazione dal cinema muto dell’effetto di iris, gli stacchi e gli attacchi volutamente scorretti in fase di montaggio.
“Fino all’ultimo respiro” è un film del 1959 diventato un cult, è un film contro il cinema e per il cinema nel senso che, spezzando le convenzioni del linguaggio cinematografico, ci mostra la presenza dello stesso, induce il nostro sguardo a cogliere e a soffermarsi sulla forma oltreché sul contenuto.
La storia è bellissima, i protagonisti pure: Michel è un lestofante simpatico, un giovanotto elegante e disinvolto nella strategia della sopravvivenza legata a piccoli traffici illeciti e a furti d’automobile. Quasi senza accorgersene, mentre alla guida supera i limiti di velocità e si gingilla con una pistola per darsi arie da duro, spara e uccide un poliziotto che lo insegue. Da questo momento inizia la sua fuga che da Parigi vorrebbe approdare a Roma. Ma prima ci sono dei soldi da riscuotere e Patrizia, con cui ha già trascorso qualche giorno, da convincere a seguirlo perché, senza troppo ammetterlo, di lei si è già innamorato. Il film, un classico della storia del cinema è il film più iconico e rappresentativo di Godard, è il punto di svolta del cinema verso la strada della modernità.
Godard ha realizzato più di 150 opere tra film, video e documentari e, insieme a Truffaut, Rohmer, Rivette, Chabrol ha fondato quel movimento di cineasti chiamato “Nouvelle vague”, in cui il cinema cerca di cogliere gli aspetti della realtà nel suo divenire e nelle sua quotidianità.
Godard sperimenta di tutto, assembla inquadrature mediate dai manifesti pubblicitari, mette in campo scritte e spezzoni di lettere, esalta dettagli a angoli di visuale sofisticati, eccelle nei primi piani, predilige inquadrature di spalle, folleggia nelle citazioni colte, utilizza dialoghi di scrittori e filosofi, gioca con il cinema come un costruttore di mondi in piena libertà espressiva. E’ un provocatore, filosofeggia, esprime attraverso le immagini un impegno politico, ripudia a un certo punto il concetto di autorialità in favore della visione di un cinema realizzato collettivamente.
Non sempre è apprezzato dalla critica e dal pubblico che non riesce a cogliere l’ermetico che abita in molte delle sue opere, ma lui tira dritto nel gioco, cammina su suoi passi che che sono più avanti.
Oltre al già citato “Fino all’ultimo respiro”, dei suoi film ricordo: La cinese, Prenom Carmen, Il disprezzo, Questa è la mia vita, Due o tre cose che so di lei. I suoi attori più noti, oltre a Belmondo, sono Anna Karina, Jean Piérre Leaud, una altrettanto immortale Brigitte Bardot che ne “Il disprezzo” prende il sole sdraiata su una terrazza, vestita soltanto di un libro aperto e capovolto sulle sue natiche.
Ma il suo capolavoro resta, credo per tutti, “Fino all’ultimo respiro”, un film che in qualche modo, sigla anche la scomparsa di questo particolarissimo regista e del suo intenso e creativo vissuto.
In questo film, Michel Poiccard fuma di continuo, a volte accende una sigaretta con il mozzicone dell’altra. Le inquadrature sono spesso sbuffi di fumo che aleggiano tra gli sguardi o che velano leggermente i baci dei due protagonisti. Il fumo di una sigaretta è come una dissolvenza cinematografica tra una scena e l’altra e così la vita è una dissolvenza tra il noto e l’ignoto.
Qualche giorno fa, il regista, ha deciso di andarsene all’età di 91 anni. Adesso che l’immortalità di Godard è nei libri e nelle sue pellicole, lui, anche questa volta, è andato avanti nello sperimentare volontariamente il grande salto, scivolando via dal peso del corpo, divenuto improvvisamente troppo greve.
Come Michel Poiccard, prima di abbassare le palpebre nella scena finale del film, Godard, stanco e affaticato, ma anche appagato da una vita piena, forse anche lui tra una smorfia e un sorriso, dissolve il suo ultimo respiro nell’abbraccio dell’umana mortalità.
Pierangelo Scala