Green Book – La trama
New York City, 1962. Tony Vallelonga, detto Tony Lip, fa il buttafuori al Copacabana, ma il locale deve chiudere per due mesi a causa dei lavori di ristrutturazione. Tony ha moglie e due figli, e deve trovare il modo di sbarcare il lunario per quei due mesi. L’occasione buona si presenta nella forma del dottor Donald Shirley, un musicista che sta per partire per un tour di concerti con il suo trio attraverso gli Stati del Sud, dall’Iowa al Mississipi. Peccato che Shirley sia afroamericano, in un’epoca in cui la pelle nera non era benvenuta, soprattutto nel Sud degli Stati Uniti. E che Tony, italoamericano cresciuto con l’idea che i neri siano animali, abbia sviluppato verso di loro una buona dose di razzismo.
“Green book” è (o meglio è stato) un libriccino (copertina verde naturalmente) che per trent’anni (dal 1936 al 1966) fu il vademecum per gli afroamericani in trasferta. Sul book venivano indicati i posti (bar, alberghi) dove i neri potevano andare senza essere rifiutati (o magari linciati).
Dove, come, quando?
Martedì 9 luglio
Ore 22.00
Cortile del Museo di piazza Ottinetti
In caso di maltempo: presso Oratorio San Giuseppe
Costo biglietti:
Intero: 6€
Ridotto: 5€*
*La riduzione si applica ai minori di 25 anni, ai soci dell’associazione RosseTorri e a tutti coloro che si presenteranno con il biglietto d’ingresso del Museo Civico Garda. Le riduzioni non sono cumulabili.
Cosa ne pensano gli altri?
Un nero e un bianco lontani anni luce per gusti, carattere e cultura attraversano gli Usa scoprendo mille cose sul loro Paese ma soprattutto su se stessi, i loro pregiudizi e come superarli. In chiave drammatica o leggera, questo schema è stato usato così spesso che basterebbe da solo a ripercorrere la storia della questione razziale al cinema. E allora come mai, con tutti i suoi cliché, le scene ad effetto, l’abile mix di comicità e commozione, “The Green Book” (il titolo viene da una sorta di guida Michelin per “negri” che uscì dal 1936 al 1966) è così efficace? Un po’ è la storia, vera e zeppa di materiale di prima mano (uno degli sceneggiatori è il figlio del protagonista bianco). Un po’ la cornice primi anni Sessanta. Decisiva la grande bravura dei protagonisti, Mahershala Ali, pianista prodigio che suona solo classica e frequenta l’alta società; e Viggo Mortensen, buttafuori del Bronx che non smette mai di mangiare, bere, parlare (sporco) ed è più vicino al popolo “black” del suo compagno di viaggio (che un danese sia così a suo agio come italoamericano, fa parte del paradosso). Ma l’essenziale forse sta in quella rieducazione reciproca che in tempi di solitudine digitale suona ancora più desiderabile. Anche se come sempre forse si tratta solo di un sogno. I familiari del vero pianista Don Shirley (di cui restano rari filmati d’archivio) hanno ingenerosamente tuonato contro il punto di vista tutto e solo bianco dello script. Ma ogni film in costume porta i segni della propria epoca, e in questo nero colto che parla al bianco di Shostakovich scoprendo in cambio Little Richard, echeggiano un’apertura, una curiosità, una gentilezza di cui oggi si sente un gran bisogno.
(Fabio Ferzetti, da L’Espresso, 3 febbraio 2019)