Gioie e dolori dell’istruzione a distanza. Cronache di vita scolastica “da remoto”
E’ follia, e non è detto che se ne esca incolumi.
Al principio era emergenza, e vabbè, ma sostenibile: si trattava di inviare agli studenti materiale, esercizi, pagine da studiare, sintesi, schemi, riassunti, mappe. Tutto già visto e già fatto, solo un po’ di più.
Qualche prof sentimentale aggiungeva saluti, domande, osservazioni. Un contatto spurio, succedaneo di relazione umana.
Le comunicazioni con colleghi e dirigenza si limitavano ai consueti rapporti personali: soprattutto era difficile superare il disorientamento, ritrovare un percorso nel labirinto delle possibilità.
Non era solo “cosa do da fare ai ragazzi”, ma piuttosto “ha senso che imponga lo studio di un testo così complesso?” e “non sarà esagerata tutta questa attività casalinga per una sola disciplina?” e “chissà i colleghi di classe quanto lavoro avranno assegnato”.
Ci si muoveva da orbi, menando l’aria e contando su qualche commento via etere di studenti altrettanto disorientati ma, forse, meno spaventati.
Partiva ancora, all’inizio, qualche proposta eccessiva: incontrarsi a scuola, tra insegnanti, a piccoli gruppi, tanto per tracciare percorsi guardando occhi e labbra e scherzandoci su. Proposta irricevibilmente antigienica, appunto, e dove lo metti il metro e ottantadue!
Tutti a casa, allora, in vestaglia davanti al computer in videoconferenza. Pardon, audioconferenza, ché la rete non regge tutte ‘ste immagini. Pardon, mutaconferenza, ché l’etere non sopporta più di 90 microfoni in sincrono. E se poi ci si parla addosso, sai che cacofonia?
Allora parla uno, naturalmente il capo, mentre gli altri scrivono messaggini a raffica che scorrono a lato e lui, il dirigente, risponde via via. Se poi proprio a qualcuno scappa di intervenire, chieda la parola e accenda, lui solo, il microfono.
Non male ‘sta riunione virtuale, a qualcuno di certo piace, non c’è da pettinarsi e ci si può bere sopra il caffè, niente consumo di carburante né di suole né di fiato, nemmeno un po’ di sporco.
Gli altri, quelli che “dai, stringiamoci la mano e guardiamoci nell’iride che poi ci laviamo a fondo”, si incontreranno clandestinamente in biblioteca, in una casa rimasta ospitale, al bar. Commenteranno, ridacchieranno, programmeranno.
Nel frattempo però l’etereo briefing ha repentinamente diffuso un’ansia da pazzi contagiosa per tutti, prof scettici ed ex tranquilloni, fanatici della tecnologia e tradizionalisti incalliti, perfezionisti e possibilisti. Perfino docenti di religione cattolica e di ginnastica elucubrano sul programma: sono avanti, sono indietro, devo recuperare, aiuto.
Di certo qualcosa si deve fare: gli adolescenti vanno seguiti ascoltati curati, pena perderli allo studio, alla scuola, alla speculazione, alla conoscenza, al bello della vita.
Dunque tutti a messaggiare, inviare, spedire, assegnare, contattare compulsivamente.
Con uno stressante inconveniente. Mettiamo che un insegnante di liceo abbia normalmente 160-170 alunni, cinque o sei classi. E mettiamo che cominci a scrivere a tutti e a chiedere risposte, commenti e proposte.
Quel prof finisce di vivere sulla Terra (nel senso di andare per prati, organizzare una gitarella, vedere un amico, leggere un libro) e comincia a vivere in un’altra dimensione: quella inafferrabile che parte dal monitor e gira e ritorna e riparte e rigira, e soprattutto non si ferma mai.
Invia materiale a tutta una classe, con annesse spiegazioni. Loro però, gli studenti, rispondono uno alla volta, perché sono tanti individui e perché glie li ha chiesti lui i commenti, le proposte, le risposte, i dubbi. Dunque loro rispondono come fanno gli umani e come piace al prof.
Sì però lo fanno più o meno tutti, e nell’arco di tutta la primaverile giornata cena e dopocena inclusi, e di tutta la settimana sabato e domenica compresi. E il prof risponde, perché è così che intende il suo mestiere e vorrebbe averli lì davanti, i suoi allievi, sentirli parlare, canzonarli un po’, rispondere alle loro battute. Cose normali.
Passerà, prevarrà l’istinto di conservazione e l’organizzazione, grande maestra di vita.
Intanto però un fantasma modaiolo si aggira per l’Italia e penetra nelle stanze dei dirigenti scolastici, tra i cronisti entusiasti, dentro le case, tra le famiglie preoccupate: la videolezione. Alla quale si dovrà ricorrere: lo chiedono i genitori, gli studenti, i dirigenti, i giornalisti neo-catechizzati, le trasmissioni di tendenza, i politici in cerca di voce. Il mondo intero.
E si farà, la lezione in streaming. Si farà perché sono gli studenti a volerlo.
E lo desiderano perché, nonostante si svolga più o meno come illustrato nella vignetta di questa pagina, il collegamento video regala un’illusione: che la scuola sia tornata.
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Per approfondire: Ecco perché insegnare è una cosa che non si può fare a distanza, una riflessione di Enrico Galiano