Lunedì 20 agosto. Addio Innovis. Come previsto dall’accordo del 27 giugno scorso, tutti i lavoratori Innovis entrano Comdata Spa con la formula della “cessione di contratto”.
Chiusi i contratti di solidarietà di Innovis, chiusa Innovis, da lunedì 20 agosto gli 80 lavoratori dell’ex joint venture tra Olivetti Tecnost e Comdata nata nel 2002 per collocare circa 270 esuberi frutto di una delle tante ristrutturazioni Olivetti, siederanno accanto ai colleghi Comdata sotto lo stesso “cappello”, la casamadre Comdata Spa. Nel frattempo, dopo 19 settimane, si è chiuso anche il periodo di il FIS che ha coinvolto 363 dipendenti Comdata rientrati quindi al lavoro il 13 agosto. La sede di Ivrea torna così a popolarsi anche grazie alla “conquista” di nuove commesse nei settori assicurativo e telecomunicazioni, soprattutto quella di Iliad, il nuovo operatore di telefonia mobile low cost che ha affidato a Comdata uno dei quattro call center italiani. Per quest’ultimo cliente la sede del call center in realtà è Milano, ma verrano collocati su questa commessa anche una quarantina di lavoratori di Ivrea impegnati su un altro cliente che invece a metà ottobre non rinnoverà il contratto. I lavoratori eporediesi faranno un periodo di affiancamento con i colleghi milanesi per acquisire le peculiarità del cliente Iliad, terminato il quale torneranno a lavorare a Ivrea.
Tra uscite ed entrate di commesse il bilancio in questo momento è dunque positivo tanto che oltre alla chiusura del FIS e all’ingresso della totalità dei lavoratori Innovis, Comdata prevede nuovi contratti interinali. Quella che rimane incerta è la commessa che dovrebbe essere il traino per Ivrea, TIM con il suo 187. Non è chiaro quanto lavoro a Comdata darà nel breve e medio periodo questo operatore che ricordiamo fu portato proprio da Innovis in Comdata. Come incerto rimane il settore dei servizi telefonici in generale, non sufficientemente tutelato nei confronti dei voleri assoluti dei committenti che si spostano da un operatore all’altro e da un paese all’altro con estrema libertà e disinvoltura alla ricerca del massimo ribasso dei costi. Da qui il carattere fortemente precario di questo settore alimentato anche dalle ultime leggi sul lavoro con all’apice lo sciagurato Jobs Act che ha sancito una volta per tutte l’incertezza lavorativa e il predominio dell’interesse imprenditoriale sopra quello dei lavoratori.
La situazione nelle altre sedi Comdata in Italia
Padova e Pozzuoli. Il 30 luglio è stato firmato un accordo fra il Ministero del lavoro, Comdata e Cgil-Cisl-Uil per le sedi di Padova e Pozzuoli. Ricordiamo che per questi siti Comdata il 15 maggio aveva aperto una procedura di licenziamento collettivo per 264 lavoratori, di fatto prefigurando la chiusura di queste sedi.
L’accordo di fine luglio dà un po’ di ossigeno, ma la bombola finirà presto e l’amaro in bocca resta. Di temporaneamente positivo c’è la chiusura della procedura di licenziamento e la riduzione degli esuberi a 100: 50 a Padova e 50 a Pozzuoli. Dovendo rinunciare ai licenziamenti collettivi immediati, per entrambe le sedi l’accordo prevede il ricorso al Fondo di Integrazione Sociale (FIS). Per la sede di Padova durerà 12 mesi (già partito il 2 agosto) con una percentuale media massima di riduzione dell’orario di lavoro del 50%. Per Pozzuoli, invece, il periodo di FIS sarà di 26 settimane dal 1 ottobre 2018 al 31 marzo 2019, per un massimo di 64 dipendenti (tutti), a zero ore. Non si sentono tranquilli i lavoratori (pur avendo approvato l’accordo in assemblea), in particolare quelli di Pozzuoli. Essendo i dipendenti campani solo 64 (204 a Padova) è chiara la volontà di Comdata di chiudere la sede puteolana. A maggio infatti la dirigenza Comdata dichiarò che il sito di Pozzuoli “ha prodotto un valore della produzione insoddisfacente rispetto ai costi complessivi da esso sostenuti. Difatti il costo del lavoro, sproporzionato rispetto alle commesse rimaste e al fatturato generato, congiuntamente al ridotto dimensionamento, non permette più la copertura dei costi fissi di gestione della struttura causando quindi un risultato di Ebitda costantemente negativo”. E qual è la soluzione degli illuminati imprenditori guidati da un fondo finanziario? Chiudere la sede. Mica fare gli imprenditori, appunto.
Tornando all’accordo di fine luglio, i 50 lavoratori da licenziare in ogni sede verranno scelti “sulla base dell’esclusivo criterio della non opposizione al licenziamento“. Non è chiaro cosa voglia dire questo passaggio, nessun dettaglio in più viene scritto sull’accordo. In questo modo si dà mano libera all’azienda per gestire trattative individuali e separate dove verrà calcolato per ciascun lavoratore il prezzo del suo personale licenziamento. E infatti nel punto 4) dell’accordo si dice proprio questo “In favore dei lavoratori che non si opporranno al licenziamento – sic -, saranno definiti con separate intese i criteri di calcolo e modalità di erogazione di un incentivo all’esodo…“.
E’ vero che l’accordo del 30 luglio fa un passo avanti rispetto al licenziamento totale, ma un Sindacato non dovrebbe firmare un accordo che non preveda regole minime collettive per il trattamento dei lavoratori. Dello stesso avviso è il sindacato Cobas (non presente alla trattativa) che dichiara “In sostanza si lasciano i lavoratori a trattare individualmente la loro eventuale buonuscita, quindi in una evidente condizione di inferiorità, ricattabilità e debolezza nei confronti dell’azienda.” Nel comunicato unitario di Cgil-Cisl-Uil, leggiamo invece soddisfazione “L’accordo prevede soluzioni non traumatiche e l’attivazione di ammortizzatori sociali per entrambe le sedi. Gli impegni sanciti nell’accordo sono finalizzati alla conservazione dei posti di lavoro e sono propedeutici alla costruzione di condizioni utili ad assicurare un futuro
produttivo.“. Di quale futuro produttivo si può parlare quando si licenziano 50 lavoratori su 64? Uno solo è possibile, nuove assunzioni a condizioni di lavoro peggiorative per avere finalmente un “valore della produzione soddisfacente”. Poi se i bilanci familiari, e non solo quelli economici, non sono soddisfacenti il problema non è certo dell’azienda o di uno Stato che permette il sottocosto del lavoro.
Cadigia Perini