L’approfondimento di Franco di Giorgi in merito alla decisione del Ministero dell’Istruzione di licenziare l’insegnante Flavia Lavinia Cassaro per aver vivacemente protestato contro i poliziotti a presidio di un comizio di CasaPound la sera del 22 febbraio scorso
E così, dopo il provvedimento disciplinare, a decorrere dal 1 marzo 2018 il Ministero dell’Istruzione ha decretato la destituzione dall’incarico, ossia il licenziamento per Flavia Lavinia Cassaro (classe 1980), maestra della scuola primaria presso l’I.C. “Da Vinci-Neruda” di Torino, perché la sera del 22 febbraio, durante una manifestazione antifascista spontanea contro un comizio autorizzato di CasaPound, aveva urlato tutta la sua rabbia ai poliziotti che in quell’occasione erano stati mobilitati a tutela di quel raduno. “Vigliacchi, mi fate schifo, dovete morire” aveva gridato, facendo venire in mente lo spirito di “Libertà”, la celebre novella verghiana. Parole che, secondo quel decreto, non sono solamente “in grave contrasto con i doveri inerenti alla funzione di educatrice”, ma costituiscono altresì un’“attività dolosa che ha arrecato grave pregiudizio alla Scuola e alla pubblica Amministrazione”.
Delle tre imprecazioni a fare la differenza e a pesare di più sulla bilancia dell’accusa è stata probabilmente la terza, quella che da tempo è passata nel gergo giovanile da stadio e che spesso i bulli usano per incidere di più e in profondità sulle proprie vittime: “devi morire”. Giacché i primi due insulti sono ormai di uso più comune e, quasi come un intercalare scherzoso, specie il secondo (“fai schifo”), possono riecheggiare come un’irrisione un po’ greve sia in un’aula di scuola, fra compagni, sia finanche nell’aula parlamentare, fra certi onorevoli colleghi. E ciò senza destare troppa offesa, perché, almeno nel primo caso, vi si fa ricorso quando si cerca di instaurare con l’altro una più simpatica amicizia. Certo, a determinare la differenza nell’effetto è il “gioco linguistico”, vale a dire sia il contesto in cui vengono adoperate quelle espressioni sia ovviamente le persone alle quali vengono indirizzate. Nel nostro caso lo scenario è quello sopra delineato, e la situazione linguistica comprende due rappresentanti dello Stato, un poliziotto e una maestra, anche se quest’ultima ha affermato che aveva inteso manifestare come una comune cittadina antifascista in difesa della Costituzione: “Se ho commesso un oltraggio – ha dichiarato in un’intervista alla Stampa (14 giugno) – di certo non l’ho fatto in veste di insegnante. Quella sera rappresentavo me stessa. Mi trovavo lì per difendere la Costituzione”. Dall’altra parte della barricata, assolvendo al loro ruolo di tutori dell’ordine, anche i poliziotti rispettavano la Carta Costituzionale, solo che essi potevano farlo non a nome personale, ma come funzionari dello Stato, dal momento che indossavano una divisa con il relativo equipaggiamento antisommossa.
Ad ogni modo, malgrado le intemperanze antagonistiche della maestra, il solito scontro cittadini-polizia si sarebbe potuto concludere presumibilmente quella sera stessa – come tante altre volte – se dagli studi televisivi di Italia Uno, sempre quella sera, Matteo Renzi non avesse espresso pubblicamente la sua indignazione: “Che schifo. Un’insegnante che augura la morte di un poliziotto o di un carabiniere andrebbe licenziata”. Espressa a dieci giorni dalle elezioni politiche, da questa frase dell’ex premier, la cui performatività tratteggia le potenzialità di un “editto bulgaro”, si possono ricavare almeno due conferme. La prima è che, quantunque emessa in contesto diverso, la parola “schifo” ricorre anche nel linguaggio dei politici; la seconda è che, come avevamo ipotizzato, a dare maggiore scandalo era stata la terza locuzione della maestra, quel “devi morire”. Ciò non significa che quell’esternazione di Renzi sia stata intesa come un ordine e che abbia determinato di fatto il licenziamento dell’insegnante in questione, ma che ha certo contribuito a far percepire quel “devi morire” più come una bestemmia che come un semplice, benché rude, modo di dire.
Oltre a ciò, ben più di una “sanzione sproporzionata”, come dice giustamente Cosimo Scarinzi, della Cub, ci sembra si tratti piuttosto di una “sanzione esemplare”, affinché gli insegnanti di ogni ordine e grado sappiano bene da ora in avanti (un po’ come era successo tre anni fa alla “parola contraria” di Erri De Luca, quando disse “la Tav va sabotata”) che cosa li aspetterebbe qualora volessero emulare l’attivismo della collega, nelle idee e soprattutto nelle azioni. Un attivismo che due ventenni orsono, memore dell’episodio di Genova, il 30 giugno del 1960, veniva annunciato non da una, ma da mille voci, le quali, coalizzate in un unico atto solidale e mosse da un unico conato, da una sola idea, sprigionavano tutte insieme una certa energia, una vera e propria forza all’interno della politeìa. Un attivismo formato e informato, capace di formare e di informare. Un attivismo che, soprattutto, non aveva bisogno, come purtroppo accade oggi, di proclamarsi antifascista, perché lo era per costituzione, anzi per la Costituzione. Più che un’ideologia, l’antifascismo era “costitutivo” o, come diceva Gobetti, un istinto. Più che un atto di riflessione o l’oggetto di un discorso, esso – per dirla con Vico, che nel Settecento ammoniva i suoi contemporanei in tema di giustizia e di onestà – era nei sensi. Non c’era bisogno di dichiararsi a parole antifascisti, lo si era nei fatti. Invece, quando questo istinto comincia a venir meno, quando inizia a perdere in convinzione o comunque a cedere e ad attenuarsi; quando, cioè, un popolo, sebbene liberato con una lotta di Resistenza dal fascismo e antifascista per Costituzione, come in un tragico ricorso storico, in un inesorabile riflusso, ritorna in buona parte (per motivi che gli storici non hanno ancora del tutto chiarito) a dichiararsi apertamente fascista, insomma quando questo popolo non sa più distinguere tra la destra e la sinistra e svelarne le rispettive finalità politiche, è solo allora che sorge la necessità di affermare l’antifascismo come un’ideologia. Oggi, purtroppo, proprio nel tempo della post-memoria o del declino della memoria reale, nel quale tuttavia si afferma l’ipertrofia della memoria virtuale, l’antifascismo è tornato infatti ad essere un’ideologia, e, come tale, ha bisogno, come la Costituzione, di essere continuamente ravvivato, rafforzato attraverso i suoi più insigni rappresentanti, specie in mancanza dei testimoni diretti della Resistenza e della guerra di Liberazione.
Eppure, per tornare alla nostra maestra, i legislatori, da questo punto di vista, non dovrebbero più avere molte preoccupazioni. Dalla cronaca quotidiana doviziosamente elargita dai media (sempre così attenti ai particolari, come ad esempio la bottiglia di birra in mano alla Cassaro durante la manifestazione) sanno bene che la condizione a cui le loro leggi hanno ridotto la classe insegnante è quella di capro espiatorio della società contemporanea. Dopo essere umiliati e offesi dagli studenti maleducati, venire quotidianamente aggrediti dai loro genitori incivili e ineducati, oltre ad essere mal pagati e poco riconosciuti da uno Stato pedagogicamente miope, gli insegnanti (equiparati ormai al ceto impiegatizio della pubblica Amministrazione) vengono ora, come si è visto, anche licenziati in tronco dal Ministero. Secondo il modello aziendale. Non ci risulta, tra l’altro, che qualcuno abbia mai pagato alcunché per le offese arrecate ai docenti (a partire dai politici) e per le gravi lesioni da essi subite. D’altra parte, chi punire? I genitori? Finché non ci scappa il morto, sarà difficile farlo. Gli studenti? Si castigano con pene che ne rafforzano l’arroganza. E poi, per quanto grave, è realmente più offensivo, più lesivo della persona augurare la morte di un poliziotto, oppure aggredire violentemente un insegnante, tenuto conto che entrambi rappresentano lo Stato e che ricevono l’affronto nel pieno espletamento delle proprie funzioni? E sì che anche essi, i professori, come meritano, dovrebbero essere non solo difesi, ma anche, prima ancora, incentivati e supportati, perché, proprio come le forze dell’ordine, rappresentano lo Stato democratico. Non si deve inoltre dimenticare che sia la piazza, sia l’aula di una scuola costituiscono luoghi repubblicani per eccellenza, in cui si svolge e si sviluppa la coscienza politica, intesa come senso di appartenenza ad una polis, come cittadinanza, in cui la personalità degli individui si attua e si realizza incarnando il principio costituzionale di solidarietà politica e sociale. D’altronde, esiste ancora un sindacato-scuola? Ha ancora la sua valenza la parola “sciopero”? Viviamo purtroppo tempi in cui tale parola ha perso sia il suo significato sia la sua funzione e in cui il sindacato è divenuto quasi un tabù. A renderlo tale, ben prima della crisi finanziaria mondiale, non solo i nuovi imprenditori fedeli alla deregulation liberista, non soltanto la nuova leva di politici thatcheriani e blairiani, ma anche i loro amici intellettuali, unanimemente concordi, tra l’altro, nel sacrificare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che tutelava la classe lavoratrice, appunto, dai licenziamenti arbitrari e selvaggi.
A proposito di intellettuali e sorvolando sulla questione della predella – giacché l’insegnante autorevole e credibile, per ‘innalzarsi’ sugli studenti, non ha bisogno né di predelle né di stampelle né tanto meno della stessa cattedra – il professor Galli della Loggia – che evidentemente non conosce a fondo la realtà attuale di entrambi gli ordini della scuola superiore – forse non sa che è ormai da diversi anni che in questo fronte non si praticano più cogestioni, autogestioni né tanto meno occupazioni degli istituti, e che i professori, più che insegnare, debbono perlopiù occuparsi di organizzare attività di alternanza scuola-lavoro, prendendo contatti con ditte più che altro interessate ad attivare corsi a pagamento per docenti e discenti. Concordo in linea di massima con lui sull’eccessiva presenza dei genitori, sulla scuola intesa come riunionificio, sulla limitazione dell’uso degli smartphone in classe e perfino sulla proposta di far pulire a turno le loro aule agli studenti (proposta già avanzata peraltro già qualche anno fa dal più zelante Galimberti, il quale avrebbe voluto estenderla anche agli insegnanti), ma dissento sul prolungamento dell’apertura della scuola anche nel pomeriggio. Ciò si potrebbe attuare se si mettesse mano a una ridistribuzione più consona degli incarichi, tra docenti che (magari alternandosi) lavorano al mattino e quelli che lavorano al pomeriggio. Con l’attuale sistema, in effetti, l’operazione proposta dallo storico è praticamente tanto impossibile quanto umiliante, non solo perché, con l’opzione della chiusura di molti istituti al sabato, gli insegnanti sono costretti a fare sei o sette ore al giorno per completare le diciotto ore di cattedra, ma anche perché una volta finita la lunga e spossante giornata a scuola, comincia per loro il lavoro scolastico a casa. Checché se ne dica, infatti, pure questi lavoratori della scuola postmoderna, questi educatori del terzo millennio, per quanto assuefatti a un’esistenza da precari, hanno una casa in cui stare, una famiglia alla quale rendere conto e appartenere, una vita da vivere, una rabbia da sfogare.
Franco Di Giorgi