In attesa della riapertura dei cinema, quando la luce del proiettore tornerà a incontrarsi con il buio della sala, non rinunciamo ad ampliare la nostra cultura cinematografica. In questo periodo di isolamento e segregazione, sicuri che ormai abbiate dato fondo a quella lista di film che vi ripromettevate di vedere quando ne aveste avuto il tempo, vi veniamo in soccorso con questa rubrica settimanale di consigli cinematografici. Buio in sala e… buona visione!
The Forest of Love (Ai-naki mori de sakebe)
Regia: Sion Sono
Catalogo: Netflix
Paese Giappone
Anno: 2019
Mentre nella città imperversano gli omicidi di un pericoloso assassino seriale, due giovani filmaker e un musicista vagabondo tentano di girare un film prendendo spunto dalla storia d’amore profondamente malata tra Mitsuko, giovane ragazza hikikomori tormentata da un trauma del passato, e Joe Murata, truffatore sociopatico e narcisista, manipolatore dalla personalità magnetica . Ovviamente la cosa sfuggirà di mano con l’entrata nel progetto dello stesso Joe Murata, dando il via a una spirale di follia di cui faticherete a vedere la fine.
Se oggi un film coreano come Parasite vince l’Oscar, lo dobbiamo anche a registi come Sion Sono che hanno portato alla ribalta il cinema asiatico con idee innovative e vincenti, senza mai piegarsi al gusto occidentale e anzi costruendo un proprio stile oggi ammirato e imitato. Ingiustamente accusato di misoginia, Sono è in realtà il regista che più di tutti ha rappresentato l’abuso sessuale in modo efficace, sia per la sensazione che lascia nello spettatore sia nel mostrarci le sue conseguenze, senza mai scadere nel moralismo. Del resto, come ripetuto nel film, il bello della cinematografia è proprio poter raffigurare gli atti più terribili e i crimini più efferati, senza danneggiare realmente nessuno.
Considerato a ragione il prodotto più estremo e crudo del catalogo Netflix, The Forest of Love (liberamente tratto dalla reale serie di omicidi perpetrati Futoshi Matsunaga) si può considerare come il pacchetto completo dei temi precedenti di Sono: il trauma e l’abuso sessuale con le sue conseguenze (Strange Circus), la disfunzione della famiglia tradizionale giapponese (Noriko’s Dinner Table) e l’alienazione senza uscita della setta religiosa (Love exposure), il tutto condito con qualche suicidio collettivo di studentesse (Suicide Club) e una notevole componente splatter-gore con annesso tutorial su come disfarsi di un cadavere (Cold Fish).
A dir poco inadatto agli spettatori più sensibili, in grado di mettere alla prova anche gli stomaci più forti, il film è al contempo un regalo perfetto per i fan più sfegatati del regista e un ottimo apripista per chi si approccia per la prima volta alle sue opere e alle tematiche a lui più care. Crudo, spietato, dalle ambientazioni fredde e condito qua e là con scene al limite del tragicomico grazie anche alla caratteristica estetica elettro-punk del regista, The Forest of Love ci insegna come l’amore possa rivelarsi una foresta oscura, anticamera per un inferno reale e terreno. Se fate parte di quella piccola parte di pubblico che ama essere scioccata dai film, non potrete più farne a meno e recupererete tutti i lavori precedenti del regista. Altrimenti statene alla larga, siete avvisati.
Bombshell – La Voce dello Scandalo
Regia: Jay Roach
Catalogo: Amazon Prime
Paese: U.S.A., Canada
Anno: 2019
Tre anni fa, il terremoto che scosse Hollywood. Un giro di vite, tante teste tagliate; ma prima del Me Too ci fu un’altra scossa, forse ancora più potente: una vera e propria “bomba”, lo scandalo Ailes, il CEO della Fox, che in Bombshell ci viene raccontato dalle giornaliste Nicole Kidman e Charlize Theron e dall’ingenua stagista Margot Robbie, tris di bionde impomatate davanti alla macchina da presa di Jay Roach, già regista di Austin Powers e Ti presento i miei.
È un fenomeno degli ultimi anni, riscontrabile anche nella cinematografia di Adam McKay, quello che vede registi di commedie demenziali staccarsi dal genere virando verso territori più biografici e drammatici, per raccontare le grandi Storie americane che hanno sconvolto il mondo. Ed ecco che McKay passa da Anchorman e Fratellastri a 40 anni a La grande scommessa e Vice, mentre Roach dai già citati film con Mike Myers e Ben Stiller a L’ultima parola e appunto Bombshell.
Rilevante il paragone tra i due registi, dato che La grande scommessa e Bombshell condividono lo stesso sceneggiatore, Charles Randolph, e anche uno stile piuttosto simile. La particolarità di Bombshell è proprio questa: è un film più vicino alla commedia che al dramma – e con commedia non si intenda risata, bensì leggerezza, superficialità dello stile; e con dramma non si intenda lacrima, ma profondità psicologia, ombrosità dello stile. Perché Bombshell non è un pugno nello stomaco, non è un’iperbole (il grande rischio delle storie romanzante); per Roach non c’è bisogno di calcare la mano, di portare all’eccesso storie già pesanti di loro, senza bisogno di sottolineature. Ed ecco l’importanza della “superficialità”, dello stile satirico in continuità con la commedia; un velo stilistico apparentemente trasparente, nel quale l’argomento emerge preponderante.
A distanza di tre anni, la fiammata del Me Too non si è spenta, si è solo affievolita, e quel che c’era da portare in superficie ora è lì che galleggia. Non è più necessario scavare, quanto elaborare quanto abbiamo già sotto gli occhi. È arrivato il momento di raccontare veramente le contraddizioni, del mettere in discussione – lasciar decantare per analizzare meglio. Perché la pretesa di Bombshell non è quella di denunciare, bensì di raccontare.
Come disse Moretti ne Il caimano, chi voleva sapere sa già tutto. Il problema è chi non vuole capire (e qui sarebbe interessante un confronto tra la televisione americana e quella italiana, tra la Fox e la Mediaset, tra Ailes e Berlusconi).
Lucky Luciano
Regia: Francesco Rosi
Catalogo: Raiplay
Paese: Italia, Francia
Anno: 1973
Nel 1972 usciva nelle sale Il Padrino di Francis Ford Coppola, primo film della trilogia e capostipite dei gangster movie italo-americani, filone che troverà la sua degna conclusione nel recente The Irishman di Scorsese, a buon diritto considerato il canto del cigno del genere. Molto più italo e meno americano è il Lucky Luciano di Francesco Rosi, uscito appena un anno dopo il Padrino ma nettamente meno conosciuto: con uno stile sobrio e documentaristico, in controtendenza rispetto alla mitizzazione U.S.A. della figura del mafioso, Rosi ci racconta in maniera precisa la vita di Salvatore Lucania, il primo boss dei boss, dalla presa del potere fino alla sua morte.
Se nella cinematografia americana dovremo aspettare fino al 1990 con Quei Bravi Ragazzi per avere una narrazione meno mitologica e più realistica della mafia, Rosi non si perde in spettacolarizzazioni e ci fornisce un’analisi quanto mai politica del fenomeno. Senza negare arbitrariamente il fascino o le capacità del boss dei boss (se non vuoi che il tuo personaggio risulti affascinante non lo fai recitare a Gianmaria Volontè), Rosi riesce contemporaneamente ad analizzare il fenomeno ed a fornire una precisa lezione di storia della mafia italo-americana, ripercorrendo attraverso la biografia di Lucania gli eventi più importanti, dallo scontro tra il funzionario H.J. Aslinger con il deputato italiano alle Nazioni Unite, proprio sul caso Lucky Luciano, fino alla riunione di Apalachin, inizio dell’inesorabile declino del potere di Cosa Nostra negli U.S.A.
Se Il Padrino culmina nel finale con lo sterminio dei boss rivali e l’ascesa al potere di Michael Corleone, in Lucky Luciano ciò accade all’inizio: non è la spettacolarizzazione della violenza che si cerca ( pur senza rinunciare all’estetica di una bella sparatoria con pistole fumanti e borsalino nero calato sul viso), poichè essa è solo il punto di partenza per il potere, vero tema centrale. Più volte viene ripetuto nel film come “la mafia si schiera sempre dalla parte del potere”, qualunque esso sia: non è un avversario, un concorrente dello Stato che si muove nell’ombra per eroderne il potere, come appare spesso nella miope analisi odierna del fenomeno, ma parte integrante di esso, ombra junghiana dello Stato di diritto, risolutore silenzioso e invisibile dei problemi che il potere visibile e pubblico decide di ignorare. E allora vediamo come Lucania, nonostante una condanna a 50 anni di prigione, venga graziato dal neo-governatore dello stato di New York per i servigi resi alla marina durante la Seconda Guerra Mondiale; vediamo gli accordi tra gli Alleati sbarcati in sud Italia e la mafia (complice la fame di un popolo uscito piegato dalla guerra); vediamo come Lucky Luciano non abbia bisogno di nascondersi dalla stampa, ma anzi sappia rigirarsi i giornalisti meglio di qualsiasi politico.
Ingiustamente passato in secondo piano rispetto alle più spettacolari quanto arroganti pellicole americane, questo film si inserisce a buon diritto nel filone dei gangster movie con una prospettiva e una profondità tipica del cinema italiano degli anni settanta. Se siete degli appassionati del genere vi conviene recuperarlo prima possibile.
A cura di Pietro Pedrazzoli e Lorenzo Zaccagnini