Il 2020 del lavoro è stato segnato come tutti gli ambiti della vita dalla pandemia Covid. Nel privato come in tutti i settori del pubblico aggrediti da anni di politiche privatistiche, dalla sanità ai trasporti pubblici, ha subito un crollo e delle trasformazioni che segneranno gli anni a venire.
Rileggendo gli articoli di fine anno di bilancio della situazione del lavoro nel nostro territorio, troverete in tutti costantemente la stessa parola: crisi. Il lavoro industriale infatti è andato in crisi da tempo, da quando chi detiene il capitale ha realizzato che si fanno molti più soldi con la finanza che con la produzione di beni. Come ci insegna Luciano Gallino, il capitalismo finanziario “persegue l’accumulazione di capitale facendo tutto il possibile per saltare la fase intermedia, la produzione di merci. Il denaro viene impiegato, investito, fatto circolare sui mercati finanziari allo scopo di produrre immediatamente una maggior quantità di denaro.” Da qui alla crisi della grande industria manifatturiera è un passo.
Anche il nostro territorio, pur caratterizzato da presenza di piccole-medie industrie, è caduto in pieno in quella crisi. Sono nate è vero altre realtà, soprattutto nel settore dei servizi, delle telecomunicazioni, dell’informatica, delle biotecnologie. Realtà anche virtuose, di imprenditoria etica, però ben lontane da quelle industriali capaci di sviluppare grande occupazione di massa. A questo contesto si è aggiunta poi la precarizzazione legalizzata del lavoro. I mille contratti, il lavoro interinale, il lavoro a chiamata, i contratti a termine. In due parole: la frammentazione e precarietà del lavoro che inevitabilmente hanno creato una classe lavoratrice con sempre meno diritti e più ricattabile.
Ed è in questa situazione, con un corpo “lavorante” debilitato, che ci ha trovati il Sars-CoV-2.
Aziende e pandemia
La reazione delle aziende alla pandemia, divenuta tale nel giro di poche settimane, è stata lenta. In alcune aree del paese volutamente lenta, con Confindustria che premeva sul ceto politico e cercava di convincere l’opinione pubblica sulla assoluta necessità di tenere aperte le aziende, anche a scapito della salute (“se qualcuno muore, pazienza“, ha ribadito qualche settimana fa il presidente di Confindustria Macerata). La conseguenza di questa sciagurata e irresponsabile posizione l’abbiamo vista tutti: migliaia di morti, più di seimila nella sola provincia di Bergamo ad alta densità industriale.
Nel nostro territorio non si è arrivati a tanto, probabilmente proprio perché il tasso industriale si è ridotto nel tempo. Eppure non sono poche le aziende che, nel primo periodo di confinamento della primavera scorsa, hanno organizzato tardivamente la messa in sicurezza dei dipendenti facendoli lavorare da casa o fornendo loro tutti i presidi necessari per evitare contagi.
E nonostante le drammatiche esperienze in particolare nella industriosa Lombardia, alla fine della cosiddetta prima ondata le aziende sono diventate tutte “regione verde”, aperte senza limitazioni (certo salvo le norme anticontagio) con il solo suggerimento a massimizzare l’uso del lavoro da casa. Le scuole sono state chiuse perché le regioni e il governo centrale non sono stati in grado di sciogliere il nodo cruciale del trasporto pubblico, e questo ha favorito il diffondersi del virus al chiuso di bus, treni e metropolitane e di conseguenza a scuola e nelle famiglie. Ma le aziende sono rimaste tutte aperte, senza obblighi di ridurre al minimo le presenze e con scarsissimi controlli giacché anche gli ispettorati del lavoro hanno subito anche loro negli anni drastici tagli.
Ivrea e il lavoro agile
Ad Ivrea hanno sede tre delle maggiori aziende di telecomunicazioni presenti in Italia: Wind-3, Vodafone, Tim. Trattandosi di grandi realtà, il trasferimento del lavoro dagli uffici alle case è stato immediato e organizzato. Ormai centinaia e centinaia di dipendenti di queste aziende lavorano da mesi a casa. Lo stesso accade in Comdata, una delle più grandi società italiane di servizi telefonici, che dopo un avvio in affanno, oggi lavora a pieno ritmo (o quasi) con gli operatori di call center e help desk sparsi nel territorio, nelle proprie case. Si è arrivati al punto che tutte le aziende stanno pensando, non solo da noi, di fare risparmi riducendo gli spazi fisici aziendali. Non ci sarà più “la mia scrivania”, ma scrivanie in condivisione da prenotare per quel giorno o due della settimana in cui il dipendente lavorerà in presenza.
La sensazione, la realtà, è che non si tornerà più indietro con tutto il negativo, e poco positivo, che questo comporta. Il lavoro da casa, telelavoro più che “lavoro agile” e meno che mai “smart working”, infatti ha alcuni vantaggi reali, ma molti pseudo-vantaggi.
Il giudizio dei lavoratori sul lavoro da casa è globalmente positivo: si risparmiano soldi e tempo per non doversi spostare da casa al posto di lavoro, si conciliano esigenze familiari con il lavoro, ecc.
Ed è su questa generale approvazione del lavorare da casa che fanno leva le aziende per cancellare uffici e spostare definitivamente i costi di struttura sui lavoratori. E anche, e non meno importante, attuare un maggiore controllo (gli strumenti informatici lo consentono) e maggiore pressione su un lavoratore che si reputa “fortunato” perché l’azienda gli permette di lavorare da casa.
Il “lavoro agile”, come già scrivevamo nell’articolo “Tu chiamalo se vuoi smart working”, è infatti un’arma a doppio taglio. A fronte di evidenti vantaggi, infatti, cela meno evidenti svantaggi. Con il lavoro da casa, possiamo dire addio all’ergonomia del posto di lavoro e a tutte quelle precauzioni per la salute sui posti di lavoro. Nelle aziende c’è l’obbligo di adottare sedie atte a favorire la corretta postura, le scrivanie e i computer devono avere certe caratteristiche per non affaticare braccia, collo, occhi. A casa come si controlla e garantisce un posto di lavoro sano? Quante lavoratrici e lavoratori da remoto hanno una stanza, una scrivania, una sedia con le rotelle e sostegno per la schiena, adatti? Quante aziende forniscono ai propri dipendenti che lavorano da casa l’intero posto di lavoro dal pc alla sedia? Ad entrambe le domande la risposta è: un numero limitato.
Vi è poi il non meno importante fattore sociale e professionale, quello delle relazioni, delle interazioni fra colleghe e colleghi tanto utili sia per lo svolgimento del lavoro sia per i rapporti interpersonali e non ultimo veri e propri presidi di “vigilanza sociale”. Quante fragilità sono state colte e aiutate grazie ai rapporti che nel bene e nel male si creano in un ufficio? Chiusi in casa tutto questo salta. E in ultimo ma non meno importante, il confinamento delle donne lavoratrici nelle case, a disposizione delle attività di cura di casa e famiglia H24.
Ci vuole più sindacato e più consapevolezza
E’ chiaro che oggi più che mai, ma lo diciamo da anni, in una situazione così “fluida” del lavoro, occorrere un sindacato forte e presente unito ad una maggiore consapevolezza delle lavoratrici e dei lavoratori sui propri diritti. Occorre cancellare i contratti precari usati non nell’eccezionalità di un momento particolare come normalità, occorre tornare a favorire il lavoro a tempo indeterminato. Serve con urgenza una contrattazione nazionale per tutelare i lavoratori “remoti” e fissi le regole per il ricorso al confinamento delle lavoratrici e dei lavoratori nelle case solo in casi estremi e volontariamente e comunque che garantisca sempre la possibilità dell’accesso in sede, saltuario o definitivo.
Cadigia Perini