Malgrado la ritualità dell’evento, l’impressione che si ricava dalla 69a edizione del Festival di Sanremo è di una maggiore richiesta di democrazia e di democratizzazione, poiché, ad esempio, come i concorrenti, durante lo svolgimento delle serate, erano agevolati ad avvicinarsi alla platea e alla giuria d’Onore, così alcuni componenti di questa giuria si sono fattivamente impegnati e resi disponibili a presentare, assieme ai conduttori, i concorrenti e i loro brani.
Anche questo semplice gesto, questo accorgimento pratico si inserisce forse in quello sforzo di “armonizzazione” con cui il direttore artistico ha voluto contraddistinguere l’annuale festa della canzone italiana. E ciò, nonostante che quasi la metà dei nomi degli artisti fosse non italiana.
Un’altra caratteristica di questo festival era la struttura dei brani, che si assomigliavano non solo per il “piano” degli incipit e il “forte” dei ritornelli, ma soprattutto per la loro evidente ispirazione al genere musicale rap. Anche la canzone vincitrice (Soldi di Mahmood, alias Alessandro Mahmoud, un ragazzo italo-egiziano di 27 anni) rientra a pieno titolo nel genere pop rap, nel caso specifico nel moroccan pop (o mor-pop). Proprio a causa di questo significativo avvicinamento al rap, molti brani hanno voluto dare più importanza al testo, al recitativo, più che al melos, alla musica, correndo così il rischio che la festa si trasformasse da festival della “canzone italiana” in fiera della “parola italiana”; come se la musica – ormai stanca, direbbe Battiato, il quale nel suo famoso Bandiera bianca del 1981, parlava addirittura di “immondizie musicali” – non fosse in grado di esprimere da sola o con l’aiuto di pochi versi la profondità dei valori mai totalmente esprimibili che accomunano tutti gli uomini e che da millenni autori e interpreti non si stancano di comunicare, a partire da quello dell’amore.
Eppure, nonostante questa crisi di sovrapproduzione musicale, il valore della musica non cessa di rivelare la sua inesauribile vitalità, di manifestare la forza viva della sua fonte fresca, irreprimibile e improsciugabile. E lo fa anche attraverso una sola nota, un singolo suono: nel nostro caso, quello che ha probabilmente toccato le corde segrete di tutti quegli Italiani che hanno votato il brano di Mahmood. Si tratta di una nota – un Sol bemolle – che ha reso unico e adamantino il valore e il significato di una frase reppata, la quale, per quanto enfaticamente espressa, senza questa sonorità sarebbe stata emessa e pronunciata senza lasciare traccia alcuna. Questo Sol bemolle (terza dell’accodo di Mi bemolle minore) cade alla fine di una doppia frase, quella in cui, non a caso, si concentra tutto lo sforzo dell’intero brano: «È difficile stare al mondo, quando perdi l’orgoglio».
Vibrando nella gola e nel petto del giovane cantante, questa nota emerge con la stessa e innocente forza luminosa con la quale nel film Schindler’s List si manifesta l’energia pura insita nel rosso del cappottino di una bambina ebrea. Un’energia sinestetica che solo Kandinskij e Klee in pittura, Rilke in poesia e Skrjabin in musica sapevano magistralmente cogliere. La singolarità di questa nota si impone al “nostro” orecchio come una sonorità non perfettamente categorizzabile, dal momento che non riesce bene a identificarla, ponendosi come un “terzo incluso”, come una sonorità indistinguibile che unifica la tonalità maggiore con quella minore, l’inflessione musicale occidentale con quella orientale. Essa insomma ci parla della realtà che è fatta non di semplici esistenze separate, ma di coesistenza, di ontologica interdipendenza. In controtendenza ai neo-nazionalismi e ai neo-protezionismi ormai nuovamente radicati in buona parte del globo, la realtà, diceva Zygmunt Bauman, ci parla a chiare lettere di inclusione e di mixophilia, poiché è fatta già di promiscuità, di Mischung, di mescolanza e meticciato.
Non io, dunque, ma la musica stessa dà ragione a Elisa Isoardi, quando dice che questa canzone di Mahmood è la «dimostrazione che l’incontro di culture genera bellezza». E a proposito di bellezza e di Mahmood, come non pensare al maestro sufi, a Gabriele Mandel, il quale in un suo bel saggio del 2000, La via al sufismo nella spiritualità e nella pratica, diceva: «Uno dei più bei detti del Profeta, ripetuto spesso dai Sufi, è “Inna Âllâh jamîl, îuhibbu âlJamâl” : “certo, Dio è bello e ama la bellezza”. In effetti in questa breve frase», pensava il maestro, «è contenuto tutto ciò che è necessario all’essere umano: Dio, amore, bellezza. Se noi tutti compissimo i nostri atti sapendo che li stiamo compiendo al cospetto di Dio, e che a Dio dovremmo renderne conto dopo la nostra morte; se li compissimo amando, amando gli altri e noi stessi; e se li compissimo belli (ritmo – simmetria), di certo tutto il mondo sarebbe in totale armonia, sarebbe davvero il pronao di un Paradiso ideale».
E probabilmente – chissà – anche Baglioni, a suo modo, pensava di realizzare questo tipo di armonia spirituale per costruire il suo materialissimo Sanremo.
Franco Di Giorgi