Se il Sindaco e gli assessori competenti, pensavano che lasciando passare il tempo i due ragazzi rimasti senza lavoro per il cambio di appalto avrebbero rinunciato alle loro rivendicazioni, si sbagliavano di grosso. Luca e Giuseppe sono più che mai determinati a chiedere ragione per quella che considerano una e vera e propria ingiustizia.
Era il giugno 2017 quando abbiamo scritto della vicenda dei due bibliotecari rimasti senza lavoro dopo 10 anni di servizio presso la Biblioteca di Ivrea. Luca ha infatti iniziato a lavorare in biblioteca nell’ottobre del 2007, dopo aver seguito un corso per bibliotecario finanziato dalla Regione Piemonte, al servizio di catalogazione bibliografica appaltato dal Comune a ditta esterna. I primi mesi Luca ha lavorato con la cooperativa COPAT, quindi dall’aprile 2008 con la Coopcultura (già Codess), fino all’ultimo cambio di appalto quando, insieme al collega Giuseppe impiegato dal 2010, perde il lavoro perché il Comune di Ivrea non inserisce nel bando la clausola sociale di salvaguardia, divenuta obbligatoria solo un paio di mesi dopo il fatidico bando (che sfortuna per Luca e Giuseppe!). Per alcune poche righe mancanti in un bando, non obbligatorie per legge per carità, ma che avrebbero dovuto esserlo per giustizia, Luca e Giuseppe a trent’anni superati si trovano di colpo disoccupati. Ma non rimangono fermi, passivi, scrivono al Sindaco di Ivrea chiedendo di essere ricevuti, sentono l’assessore alla Cultura Benedino, il vicesindaco Capirone. Per mesi nessuno ritiene nemmeno di fare una telefonata ai due ragazzi che pure chiedevano solo di essere ascoltati e di ricevere una risposta sul perché erano stati discriminati dopo dieci anni di lavoro.
Che già discriminati lo erano anche mentre lavoravano e ci chiediamo perché esternalizzare un lavoro di lungo periodo e far convivere negli stessi uffici lavoratori di serie A e lavoratori di serie B. “Abbiamo dovuto rinunciare alla mensa, ci sarebbe costata 4,50 euro a pasto, come un consulente esterno che lavorava per il comune una tantum, invece noi lavoravamo tutti i giorni, mentre i dipendenti comunali pagano intorno a 1,50 € a pasto” – racconta Luca – siamo stati così costretti a portarci il pranzo da casa, ma non potevamo nemmeno consumarlo in ufficio, perché durante l’orario di chiusura della biblioteca non si poteva stare nei locali“. E poi l’orario passato dal full time di 38 ore al part time a 30 e ancora la riduzione della retribuzione da un appalto all’altro. Una condizione deplorevole tanto che fece dire al segretario provinciale della Fiom-Cgil Federico Bellono da noi interpellato “Le considerazioni a cui questo episodio si presta sono molto negative, perché – nonostante le clausole sociali talvolta previste – il settore pubblico è di gran lunga il maggior erogatore di lavoro precario, in genere attraverso le più disparate modalità di appalto, spesso a cooperative dove l’aspetto societario non rimanda a principi di autogestione ma alla mera possibilità di garantire salari e diritti inferiori. Speriamo che almeno nel caso di Ivrea il Comune sappia rimediare a quello che appare in tutta evidenza un torto. Non riuscirci – pur con tutte le motivazioni tecniche di questo mondo – avvalorerebbe il senso comune secondo cui a parlar male della precarietà sono tutti buoni, salvo poi praticarla.”
Forti critiche sono arrivate da più parti verso il comportamento “leggero” dell’amministrazione comunale di Ivrea in questa vicenda, da Rifondazione Comunista fino alla lettera al Sindaco di Ivrea della madre di uno dei due lavoratori, Daniela Teagno, uno scritto lucido, profondo e di dura critica ai singoli comportamenti e al sistema che li accoglie. Nulla ha però smosso né il Sindaco né gli altri attori chiamati in causa dell’amministrazione eporediese, il primo pezzo di istituzione che ha incontrato i ragazzi è stato l’assessorato al lavoro della Regione Piemonte, al quale per il perdurare del silenzio eporediese si erano anche rivolti i ragazzi. Solo dopo mesi di silenzio, alla fine dell’anno scorso i ragazzi sono stati ricevuti dal vicesindaco Capirone, senza ottenere però alcuna sostanziale risposta, e il Sindaco ha ricevuto la madre che aveva formalmente richiesto un incontro. La posizione dell’apparato politico e amministrativo è comunque una e una sola: la clausola sociale non era obbligatoria. Tutto il resto non conta.
Conta però per Luca e Giuseppe, ormai disoccupati da un anno, senza prospettive, che nei giorni scorsi hanno distribuito un amaro e duro volantino di denuncia in città.
Il Comune dovrebbe essere la casa aperta di tutti i cittadini, almeno l’ascolto dovrebbe essere garantito a tutti, la pubblica amministrazione dovrebbe essere il miglior datore di lavoro del paese. Invece la realtà è diversa: flessibilità e precariato toccano e non poco anche gli enti locali, con evidenti danni sociali.
Cadigia Perini