Ottima partecipazione alla serata organizzata da Nuovi Equilibri Sociali, ZAC, Legambiente Dora Baltea e Varieventuali durante la quale si è provato a indagare quali conseguenze subirà il mondo del lavoro (e non solo) con l’avvento dell’intelligenza artificiale e la diffusione di algoritmi sempre più sofisticati
Con l’avvento dell’intelligenza artificiale avremo ancora un lavoro? Sono più a rischio i lavori manuali semplici o ad alta professionalizzazione? Come manterremo lo stato sociale se i robot non prendono stipendi e non pagano le tasse? Sono solo alcune delle domande che venerdì 26 aprile hanno attratto un centinaio di persone allo ZAC d’Ivrea per ascoltare la lectio magistralis di Norberto Patrignani, docente di Computer Ethics alla scuola di Dottorato del Politecnico di Torino.
L’uomo si è sempre servito delle macchine e la trasformazione a cui oggi assistiamo con l’avvento di quella che la vulgata comune chiama (impropriamente, secondo Patrignani) “intelligenza artificiale” è solo l’ultima di una serie di metamorfosi del lavoro. Nel marzo del 1811 è celebre la rivolta operaia luddista che distrusse i telai meccanici; nell’ottobre 1861 i lavoratori americani della pony express si trovarono improvvisamente senza lavoro con l’avvento del telegrafo; in epoca moderna l’arrivo del Personal Computer rimpiazzò i lavori di “battitura a macchina”.
Nel dicembre 2023 i lavoratori Google sono scesi in strada a San Francisco, in America lo scorso anno è nato il primo sindacato dentro le mura dei magazzini Amazon e i lavoratori di Hollywood hanno scioperato, chiesto e ottenuto garanzie sull’impiego dell’intelligenza artificiale per tutelare il loro lavoro.
Per capire le contraddizioni profonde che stanno alla base di questi nuovi, recenti episodi di protesta Patrignani ci ricorda che la tecnologia non è mai stata neutra, bensì in costante rapporto con il resto della società, della politica e dell’economia.
«Internet nasce negli anni ’70 in un contesto di forte critica all’autorità» racconta Patrignani. «Erano anni di contestazione antigerarchica e la prima Internet subisce gli effetti di quel clima. Inizialmente Internet non ha un centro di controllo, nessuno ne ha la proprietà». Le cose cambiano rapidamente nel 1996 con il Telecommunications Act americano nel quale Bill Clinton e Al Gore aprono le porte alla deregolamentazione del mercato e, cosa peggiore, «decretano che le piattaforme online non sono responsabili dei contenuti». È il “liberi tutti” che le grandi compagnie stavano aspettando e che lede profondamente il rapporto tra mercato, tecnologia, legge ed educazione. Nessuna responsabilità morale in seno alle società, ma solo massimizzazione dei profitti. Il 2007 è un altro anno significativo nel processo di colonizzazione delle tecnologie e concentrazione di capitale tecnologico: nasce l’iPhone e con esso l’idea che il mercato possa entrare letteralmente nelle nostre tasche. «In passato avevamo già conosciuto tecnologie invasive e in grado di condizionare le masse. La televisione aveva infatti accresciuto la capacità del mercato di entrare nelle nostre vite, ma lo smartphone segna una svolta perché oggi le aziende non propongono più pubblicità generiche, ma grazie agli algoritmi sono in grado di personalizzare le vendite e i contenuti». L’avvento dello smartphone ci ha reso tutti produttori (anziché semplici consumatori come accadeva con la televisione). Ma produttori di cosa? Di una mole spaventosa di dati. «Il 2018 è stato il cosiddetto “anno del raddoppio”, ovvero l’anno in cui come società abbiamo prodotto in soli 365 giorni la quantità di dati e informazioni dell’intera storia dell’umanità fino al 2017». Non è un caso che tra le dieci principali aziende al mondo sette abbiano a che fare con l’accumulo dei dati e la produzione di infrastrutture digitali: Microsoft (il cui capitale supera di gran lunga il PIL italiano), Apple, Alphabet (Google), Amazon, Nvidia, Meta e TSMC (il più grande produttore indipendente di semiconduttori al mondo e di circuiti integrati con sede a Taiwan).
«È l’alba degli “imperi del cloud”» spiega Patrignani. Aziende talmente sviluppate e proprietarie di una mole di dati e di algoritmi altamente sofisticati in grado di condizionare l’andamento degli Stati, delle società, dell’economia e del mondo del lavoro. Ed è qui che la domanda con la quale si era aperta la serata comincia ad assumere una forma diversa, meno fatalista e più legata alla vecchia lotta di classe. L’ascesa di questi “imperi del cloud” è il risultato di uno squilibrio globale tra mondo del lavoro e ricchezza prodotta al punto che la questione non è più tanto se e quando il nostro lavoro verrà sostituito, ma il fatto stesso che lavorare per questi “imperi” non farà altro che alimentare le profonde diseguaglianze che attraversano le società e che ci stanno proiettando rapidamente verso un mondo fortemente polarizzato tra chi possiede il controllo di macchine, big data e algoritmi autoapprendenti e chi come al solito ha bisogno di lavorare per vivere.
Nel tentativo di tranquillizzarci sul fatto che molti lavori non verranno mai sostituiti dalle macchine (l’autista di ambulanze, il negoziatore, l’astronomo, l’artigiano, l’agricoltore, l’insegnante, il fisioterapista, il barbiere, il filosofo…) Patrignani mette comunque in guardia sul processo di sostituzione del lavoro umano in atto: «per un’azienda la sostituzione di un lavoratore con un robot implica un risparmio del costo del lavoro del 90%». L’esempio che viene fatto è quello di Adidas, l’azienda produttrice di scarpe e articoli sportivi che in Germania è proprietaria di una “speedfactory” ad Ansbach quasi totalmente automatizzata che impiega solamente 160 lavoratori altamente qualificati e produce 500.000 paia di scarpe all’anno (2.500 al giorno). Ma quello che per Adidas è un profitto e un risparmio di costi, per la società, lo Stato e il welfare sociale rappresenta una sciagura, considerato che i robot non pagano le tasse.
A serata terminata si ha la netta sensazione di aver davvero imparato qualcosa sulle nuove tecnologie e sull’intelligenza artificiale e quella che fino a poche ore prima appariva come l’ultima delle magie del mondo moderno (l’aver dato la capacità di pensiero alle macchine) lascia il posto al dubbio che questa intelligenza artificiale non sia poi tanto diversa dall’inganno del “turco meccanico”, un presunto automa creato nel 1769 per Maria Teresa d’Austria in grado di disputare partite di scacchi, ma che in realtà nascondeva al suo interno un piccolo uomo che con l’aiuto di alcuni magneti era in grado di seguire le mosse delle pedine.
Alcuni di noi potranno forse vivere abbastanza per vedere gli algoritmi autoapprendenti “imitare” alla perfezione l’essere umano, ma l’aspetto più inquietante e che rimane impresso nella mente a fine serata è rappresentato dall’idea che con il nostro quotidiano aiuto ognuno di noi sta contribuendo alla crescita dei nuovi imperi del cloud. Yanis Varoufakis nel suo ultimo libro “Tecnofeudalesimo: cosa ha ucciso il capitalismo” scrive infatti: “Ecco un accenno di quello che rende il capitale cloud così fondamentalmente nuovo, diverso e inquietante: il capitale è stato finora riprodotto all’interno di un mercato del lavoro – all’interno della fabbrica, dell’ufficio, del magazzino. Sono stati i lavoratori salariati, aiutati dalle macchine, che hanno prodotto la merce che è stata venduta per generare profitto, che a sua volta ha finanziato le loro paghe e la produzione di più macchine; è così che il capitale si accumulava e si riproduceva. Il capitale cloud, al contrario, può riprodurre sé stesso in modi che non coinvolgono alcun lavoro salariato. Come? Imponendo a quasi tutta l’umanità di partecipare alla sua riproduzione…gratuitamente”.
Andrea Bertolino