Un sindacalista umile, un uomo coraggioso.
Ci sono persone di cui non puoi vantare una particolare conoscenza ma che diventano, per qualche ragione, indimenticabili, si incidono cioè nel patrimonio della tua memoria, collocati nitidamente attraverso la forza di un semplice dettaglio, di un attimo che diventa parte integrante del tuo vissuto.
Ricordo Gian Moia dai tempi della Olivetti, la sua voce con la erre vibrante, riverberata dal microfono durante le assemblee di fabbrica. So che si è sempre speso e impegnato nell’ambito del sindacato fin da quando era giovanissimo, in quegli anni settanta- ottanta, e oltre, in cui i lavoratori partecipavano alla costruzione e alla tutela dei loro diritti. Sicuramente mi aveva colpito di lui quella forza genuina per cui, nonostante la mia stessa giovane età, sapeva già stare davanti a un pubblico, parlare ai lavoratori con quella autorevolezza e competenza necessarie ad onorare il ruolo che si era scelto.
Alle assemblee, come segretario della Fiom, era diventato una presenza abituale, con la sua bella figura, i capelli color del grano e quella voce che, unita alla semplicità di comunicazione, lo poneva in rilievo distinguendolo da tutti gli altri. Insomma ispirava spontaneamente fiducia.
Io, in linea di massima, partecipavo tanto alle assemblee quanto agli scioperi, ma alla coscienza di classe non ho mai creduto sembrandomi quest’ultima la più ruffiana delle utopie, una specie di credo pseudo consolatorio simile a tanti altri artificiosamente propagandati.
Però ero un lavoratore e mi assimilavo a tutti gli altri, impiegati e tute blu da una parte, padroni al vertice dirigistico e Gian Moia, come tutti lo chiamavano, insieme ai suoi colleghi a tessere il difficile compito dell’intermediazione sindacale.
Un giorno, all’inizio di un’assemblea, non so neanch’io perché, avevo trovato il coraggio di esprimere un mio punto di vista, lanciandomi in un intervento confuso il cui coefficiente di approssimazione si era acuito nell’emozione e consapevolezza di avere addosso gli occhi di tutti. Ciononostante avevo notato che Gian Moia, estratto di tasca un taccuino, stava vergando sullo stesso qualche appunto. Questo, non tanto perché dalla mia bocca uscissero concetti assennati quanto perché era forte in lui l’attitudine ad ascoltare un lavoratore, chiunque egli fosse.
Ebbene, in me, quel taccuino nelle sue mani è ancora oggi il dettaglio mnemonico, l’immagine visiva di un sindacalista umile, uno che credeva in quel che faceva, mettendoci, oltre alla voce, anche le orecchie.
Certo oggi i rapporti di lavoro tra imprenditori e subalterni, rispetto a quegli anni lontani, sono molto cambiati e i lavoratori hanno peggiorato le loro condizioni. Gli imprenditori, gli unici da cui sembra derivare tutto il benessere produttivo, dopo aver predicato il rischio d’impresa e depauperato il lavoro dipendente, non tollerano due mesi di crisi da coronavirus, invocando aiuti statali come gli ultimi dei subordinati. Come dire l’impresa è liberista quando accumula profitti, ma statalista quando deve fronteggiare le perdite.
I lavoratori sono comunque quelli che ci rimettono maggiormente, ieri come oggi e, schierandosi dalla loro parte, credo che Gian Moia avesse dato vita ad una sua indemandabile vocazione naturale.
Di lui so anche che si era dovuto ben presto confrontare con le limitazioni di una sofferenza renale, una problematica che andava ben oltre quelle prospettate dal suo quotidiano impegno sindacale. Forse, per una istintiva reazione vitale a questo stato di cose, aveva intensificato la sua attività sportiva, goduto e beneficiato di un frequente movimento fisico all’aria aperta che conferiva al suo aspetto la doratura di una pelle costantemente abbronzata.
Poi gli anni sono andati via veloci e per noi dipendenti Olivetti, coinvolti nel declino industriale della grande azienda, sono arrivati gli ammortizzatori sociali e i prepensionamenti.
Gian Moia non l’ho più visto.
Più o meno tre mesi fa, in periodo antecedente alla pandemia, passavo davanti all’edificio “La Serra”, simbolo fatiscente di incuria e degrado cittadino, e nel raggio del mio sguardo, avanzava una sedia a rotelle spinta da due braccia robuste. Sulla carrozzella c’era lui.
Mi ero fermato per salutarlo, una volta di più ingenuamente stupito di come la vita possa riservare le sue pene anche a chi l’ha cavalcata con ardimento. Avevamo chiacchierato un po’ e la sua voce era rimasta la stessa con il suo timbro arrochito, strumento e veicolo di una inalterata cordialità. Sorridendo mi aveva presentato “il suo badante indiano” così come aveva definito il suo accompagnatore di colore e, quando gli avevo avevo chiesto se la sua condizione fosse solo temporanea, mi aveva risposto che le sue gambe non gli avrebbero mai più permesso di reggere il peso del corpo. Poi, subitamente, come a fugare una velatura di tristezza, mi aveva semplicemente detto che la sua vita era stata piena, che aveva fatto quello che desiderava e che stava bene.
Dopo i saluti, la carrozzella si era allontanata sobbalzando sui cubetti di porfido e facendo un po’ tremare anche la testa di Gian Moia. Visto di spalle lui affiorava a tratti dietro la sagoma del suo badante.
Ero rimasto un po’ a seguirli con lo sguardo e poi avevo ripreso i miei passi nella direzione del lungo Dora. Ho tre aggettivi per ricordare Gian Moia: era un uomo coraggioso, umano, sereno.
Pierangelo Scala