Riflessioni a partire dalla manifestazione contro i femminicidi di domenica 26 novembre a Ivrea
La manifestazione contro i femminicidi, che si è tenuta in piazza di città domenica 26 novembre, mi ha colpito per la bravura e per la chiarezza degli interventi, preparati o nati spontaneamente, che le donne, con coraggio e qualità dialettica, hanno effettuato, smentendo innanzitutto il luogo comune che le nuovissime generazioni vivano soltanto di comunicazioni via social. Invece, combattive e indignate diciottenni si sono distinte per aver raccontato anche esperienze personali, delicate e per questo non certo facili da esternare. Per una volta gli uomini presenti sono stati invitati al ruolo di semplici uditori, ascoltatori silenziosi delle voci di protesta delle donne. Come gesto simbolico le donne hanno anche preparato dei nastri di stoffa bianca, 106 nastri come il numero delle donne uccise quest’anno da parte maschile, ogni nastro con il nome di una vittima. Alla fine le persone, ognuna con un nastro in mano, hanno legato lo stesso all’ingresso del municipio. Un fardello di nomi spezzati, ma che non devono essere dimenticati, nomi che devono penetrare come pungoli nelle coscienze maschili e scuoterle, scardinarle, rovesciarle in un lavoro di autoanalisi e autocritica utile a creare delle basi solide per una lotta non simulata alla piaga del femminicidio. Su questa linea, chi ha preso un nastro è stato anche invitato ad informarsi e a ripercorre la storia di quella persona di cui teneva il nome in mano. Sempre in aderenza alla linea della concretezza, nella manifestazione, è stata annunciata la costituzione di due gruppi, uno per gli uomini e uno per le donne, finalizzati a un lavoro di decostruzione e superamento degli stereotipi comuni per acquisire e maturare nuove consapevolezze nell’ottica di un possibile cambiamento.
Detto questo, piacerebbe anche a me dire qualcosa sul fenomeno nefando dei femminicidi e dell’abiezione maschilista, perché ritengo che, dopo quella delle donne, la voce e i contributi dei maschi siano fondamentali per affrontare il problema. In relazione al caso, noto a tutti, che ha sollevato tante indignazioni e proteste, posso dire di aver sentito un diluvio di parole da esposizione mediatica che ha prodotto anche molta confusione. Le parole costruiscono il mondo, è stato affermato con piena ragione e, quindi, penso sia necessario disambiguarle definitivamente. Per esempio, non dovremmo più parlare di amore tossico, di amore malato o di altre definizioni la cui aggettivazione non ha altro scopo se non quello di evidenziare palesi contraddizioni. L’amore, per sua natura, non è definibile, ma se vogliamo parlarne, allora possiamo farlo soltanto attraverso i suoi contrari quindi definendo innanzitutto ciò che amore non è. Stessa cosa vale, a mio parere, per il concetto di libertà, che si accompagna a braccetto con l’idea dell’amore. L’amore vive nella libertà che non è la permissività dell’indifferenza, ma una libertà consapevole di cui si conoscono costi e vantaggi. Se non c’è libertà non c’è amore. L’altro concetto è quello di gelosia, uno dei motivi scatenanti della violenza. Ci può essere una gelosia positiva e una negativa? Per me la risposta è no, e quindi ne ricavo che insieme all’assenza di libertà anche la gelosia giochi un ruolo contrario all’idea dell’amore. Quindi se un rapporto è dominato dalla mancanza di libertà e dalla gelosia non è un rapporto d’amore. Ora, uomini e donne che si sia, chi è capace di vivere, all’insegna della libertà e dell’assenza di gelosia, un rapporto a due? In questi anni sono state fatte molte rivoluzioni libertarie nei costumi e nei rapporti di coppia (evidentemente non ancora sufficienti) ma, in termini di evoluzione del senso dell’umano e di comprensione della vita, che cosa è stato fatto? Anzi che cosa hanno fatto singolarmente gli uomini, ognuno per se stesso?
Un altro concetto che apre le porte all’idea di una verità dell’amore è quello che riguarda il tema della solitudine. Può una persona che non sa stare da sola amare qualcuno? Oggi parliamo di educazione sentimentale e sessuale, parliamo di eliminare la violenza come se si trattasse di sradicare un albero, con qualche rimedio immediato, con qualche alchimia veloce. Io, stante le attuali condizioni, sarei già felice se gli pseudo-uomini si limitassero a picchiare le donne con un fiore, possibilmente, evitando come arma impropria, il ricorso alle rose.
Quello che dico, sarà semplificativo e banale, ma è quanto riesco ad esprimere senza cadere nel tranello delle arruffate contorsioni e congetture mentali. Gelosia, libertà, solitudine sono, secondo me, le parole chiave da cui cominciare ad interrogarsi per fare evolvere non solo la questione maschile ma anche quella femminile. Uno solo degli interventi effettuati dalle donne in piazza ha considerato le abitudini sessiste come una deriva a rischio anche per le donne. E questo è stato l’intervento che ho apprezzato di più.
Un altro concetto chiave di cui si è parlato molto è quello del cosiddetto patriarcato. Mai come in questi giorni questa parola è risuonata nelle orecchie. Molti ne hanno furbescamente disconosciuto il significato prendendone le distanze. Dicono costoro: “La società non c’entra nulla, la responsabilità è solo di chi ha commesso il fatto. Se un maschio uccide e delinque, milioni di altri maschi sono virtuosi e non devono essere assimilati all’assassino né tanto meno sentirsi in colpa per cose che non hanno commesso”. C’è del vero in questa affermazione ma non si può negare che chi commette violenze appartenga alla categoria dei fragili, dei deboli ancora aggiogati e sottomessi a ben sedimentati stereotipi sociali, inculcati da secoli e difficili da superare. Si può ragionevolmente constatare che esistano maschi formati, adulti, maturi, liberi, consapevoli e, quindi, in grado di essere individualmente responsabili e altri, (forse la maggior parte) purtroppo no. Costoro oppongono resistenza al cambiamento in quanto chiamati a mettere in discussione e anche a rinunciare ai loro privilegi.
Ora, il tratto che differenzia queste due condizioni, tra maschi cresciuti e altri refrattari, sta nella figura del ribelle, il ribelle che, ragionando con la propria testa, impara a distinguere ciò che si subisce da ciò che si sceglie.
La parola patriarcato non mi piace, preferisco parlare di condizionamento sociale. E’ chiaro che siamo tutti figli della società in cui nasciamo e dalla quale ereditiamo modelli di sviluppo, usi, costumi, e una forma più o meno radicata di imprinting. Crescendo possiamo entrare in crisi rispetto a questi dettami e ribellarci ad essi in un faticoso processo di superamento evolutivo e di liberazione. Questa potenzialità e possibilità di cambiamento ci dice che siamo sì condizionati dalla società ma non determinati in assoluto dalla stessa e, quindi, volendolo, possiamo affrancarci dai modelli precostituiti e dalle logiche di sistema. Come? Credo sia sufficiente analizzare la propria vita e valutarne criticamente le stonature. E’ un processo di crescita lungo e arduo che si compie innanzitutto in prima persona, per iniziativa e volontà personale. Se ci si rende disponibili ad iniziare il percorso allora, cammin facendo, si potranno trovare persone e strumenti che ci aiuteranno a smontare le prigioni psicologiche che ci tengono in ostaggio.
Naturalmente siamo anche liberi di involvere dal punto di vista culturale e umano anche se apparteniamo a una società progredita e all’avanguardia perché, dal mio punto di vista, è l’individuo che, stando al libero arbitrio, forma o deforma la società e non il contrario.
Se si assolutizza che il femminicidio è un omicidio di Stato, allora si deve ammettere che anche gli autori materiali del crimine, in quanto prodotti della cultura generata dallo Stato, non sono solo degli assassini, ma anche delle vittime. E a loro volta le vittime sono anche i genitori degli assassini che non hanno contraddetto e anzi hanno favorito la cultura maschilista dominante, ereditata dallo Stato che l’ha prodotta. E così di catena in catena fino alle origini del patriarcato, causa primaria di questi crimini la cui colpa finisce di essere attribuita più alla società che non all’individuo così ritardando, da parte di quest’ultimo, la conquista dell’autonomia e dell’indipendenza responsabile. Secondo me non sarà certo il patriarcato a suicidarsi, ma gli uomini e le donne, che da esso si sono liberati, a combatterlo e, in prospettiva, a sconfiggerlo definitivamente.
All’oggi tutto può servire come mezzo di lotta ai femminicidi, ma intanto questi crescono di numero. Altre donne sono state uccise appena dopo Giulia. La situazione è insopportabile, ma se nemmeno i femminicidi servono a creare coscienza e il numero delle donne ammazzate continua a salire, se gli educatori sono prodotti del sistema e devono quindi essere rieducati e i rieducatori altrettanto, allora forse è il momento di fare appello, finalmente, al singolo individuo e dirgli di cominciare a cambiare da solo, non nel senso dell’individualismo egoistico e degenerato, ma ponendosi allo specchio per scrutarsi al di là della maschera. Abbiamo bisogno di un individuo che da maschio ambisca a diventare uomo. Un individuo che, non eludendo le domande scomode, cerchi invece di far luce e chiarezza nell’abisso del suo spazio interiore, nelle sue debolezze, nei suoi errori, nei suoi istinti di sopraffazione. Diciamocelo chiaro e forte: “Tutti i maschi che hanno paura di perdere il potere su di una donna, non riescono a tollerare, in se stessi, la loro impotenza”
Pierangelo Scala