Occorrerebbe un cambio di mentalità, certo, ma come?
La giornata internazionale del 25 novembre, per ricordare la violenza sulle donne, è stata lugubremente funestata, in Italia, da due nuovi femminicidi a cui ne è seguito un altro il giorno dopo. Questi fatti mantengono in media il conteggio delle vittime, pari al numero di una donna uccisa ogni 3 giorni, dall’inizio di questo mestissimo 2020.
In quanto uomo non posso che vergognarmi di tutta la sofferenza procurata alle donne che, evidentemente, è da ricercarsi nel profondo delle nostre abitudini e dei nostri comportamenti deviati.
Si è detto che il Corona virus, con la conseguente segregazione casalinga, ha esasperato una somma di frustrazioni, già latenti in famiglia, con conseguenti ulteriori danni nei confronti delle donne.
Più del covid 19 la violenza sulle donne è una pandemia internazionale la cui origine si perde nella notte dei tempi, da quando l’uomo ha fabbricato società maschiliste per dominare la donna, un essere, in natura, probabilmente più potente di lui.
La cosiddetta parità di genere resta, a tutt’oggi, una chimera o, nella migliore delle ipotesi, un’aspirazione. E’ vero che, ultimamente, qualcosa è stato fatto: sono nati consultori e numeri verdi, si sono incoraggiate le donne a sporgere denuncia, si sono creati reti di solidarietà e protezione, si sono adottati mezzi di esposizione simbolica come le panchine rosse o le scarpe rosse, o il segno rosso di un livido sulle guance dei personaggi sportivi per dare più visibilità e rilievo a questa piaga. Inoltre si sono rafforzate le campagne di sensibilizzazione nei media e si è anche chiesta la detassazione dei tampax, per demolire un altro dei tabù discriminatori a danno delle donne, osteggiate come impure anche nelle loro funzioni più naturali. Ciononostante le donne continuano a venire accoltellate, prese a revolverate, sfregiate (atto ancora più impietoso e violento, a mio parere, dell’omicidio), stuprate e malmenate.
C’è da chiedersi in che anni viviamo e cosa ne è stato del femminismo e della rivoluzione sessuale e della libertà dei costumi sbocciata negli anni 60 e 70.
In questi giorni, di miseria estesa, la Casellati, presidente del Senato della Repubblica, ha detto che non è sufficiente emanare nuove leggi, intese ad isolare gli uomini violenti, ma occorre un cambiamento di mentalità. Su tale dichiarazione di intenti, credo sia facile convenire ma per realizzarne un progetto concreto, penso che ancora ce ne corra.
Spesso si pretende che la “cosiddetta società civile” superi se stessa trasformandosi in quello che non è e cioè una società a misura d’uomo. Questa società più matura non si limiterebbe a creare buona cultura ma spingerebbe all’autonomia del pensiero tanto gli uomini quanto le donne, cosa che i politici e i custodi della morale ufficiale si guardano bene dal fare per non destabilizzare il sistema di convenienze.
La società muta molto più lentamente di ciò che può fare il singolo tanto è vero che il femminismo e suoi sacrosanti principi non hanno liberato la società dai femminicidi ma hanno emancipato soltanto le donne che hanno lottato e creduto nella possibilità di rendersi libere.
Ci sono donne che sono diventate degli esempi per molti ma non per tutti. Che cosa, dunque, o chi può cambiare veramente una mentalità?
Provocatoriamente oserei dire a uomini e donne che nessuno verrà a liberarli dalle loro catene se loro stessi continueranno a considerarle come dorati e irrinunciabili braccialetti.
La società attuale, evidentemente, assomiglia ancora molto a quella che nel 1976 ha mandato al rogo un film come “Ultimo Tango a Parigi”, accusato di oltraggio al pudore come scusa per mascherare il carattere antifamilistico che il film chiaramente denunciava.
Siccome la maggior parte dei femminicidi avviene in famiglia, allora credo sia lecito interrogarsi su che tipo di uomini e di donne formano una famiglia. Se è vero che la famiglia è un riflesso della società, ed entrambe condizionano l’individuo, allora è vero che chi causa il problema non può fornirne anche la soluzione.
Questa andrebbe piuttosto ricercata, nell’autodeterminazione di soccorrersi privilegiando il desiderio di indipendenza individuale a quello, pur legittimo, di crearsi un nucleo familiare.
Visto che si parla tanto di prevenzione, una donna dovrebbe principalmente smascherare l’uomo, con cui si relaziona, valutandone innanzitutto il grado di gelosia che dimostra.
Se gli uomini danno segni di gelosia è meglio starne alla larga perché la gelosia è il rivelatore principale della possessività. Se un uomo vuole privatizzare la tua vita e diventare il custode della tua libertà lascialo perdere in anticipo.
Purtroppo la cultura maschilista impregna talmente la società che i suoi stereotipi sono radicati anche in molte donne, donne che, per esempio, sono orgogliose di essere oggetto di gelosia, scambiando questo grave difetto per una qualità dell’attenzione nei loro confronti.
Naturalmente si può dire che soltanto una donna libera, dal tarlo della gelosia, può valutare con attendibilità se l’uomo, invece, ne è afflitto. E qui il problema è appunto quello di riconoscere quello che la società non ti aiuta a riconoscere.
Lo schema della disparità di genere si riassume quindi nell’insicurezza generata dagli stereotipi sociali che influenzano entrambi i sessi. A peggiorare le cose concorre anche la cattiveria che è una componente in più dell’inadeguatezza maschile e spesso anche femminile.
Anche il linguaggio ha le sue imprecisioni per cui la stessa definizione di “violenza di genere” è contestabile pensando agli uomini che la violenza, invece di commetterla, l’hanno subita. Personalmente conosco almeno un caso di violenza donna-uomo dagli esiti nefasti.
In termini assoluti la definizione “violenza di genere” non è esatta ma, in termini relativi, ci può stare perché si riferisce alle donne vilipese in quanto netta maggioranza. Il termine femminicidio e non “maschicidio” è, infatti, ampiamente consolidato nella consapevolezza generale.
Sovente, come nel caso della famiglia sterminata recentemente, cane compreso, a Carignano vicino a Torino, la furia omicida maschile non conosce limite. Non potendo più esercitare il controllo sulla moglie o compagna, l’uomo padrone distrugge tutto ciò che ha contribuito a formare non tollerando l’affronto di un rifiuto. Tanto più l’uomo è disumanizzato tanto più il suo ego ferito giganteggia. L’educazione sociale ha indirizzato il maschio a scaricare, abbandonare, lasciare, sostituire una donna quando vuole, ma non ad accettare la stessa sorte a parti invertite.
Invece di cercare le ragioni di un abbandono si coltiva il risentimento dell’orgoglio ferito.
Per usare un paradosso, credo che la validità di un matrimonio, sia misurabile più da come si esce dal legame coniugale piuttosto che da come se ne entra.
Chi sa separarsi sa anche sposarsi e non il contrario.
Il video “Riconoscere la violenza”, pubblicato recentemente su questo giornale, dimostra quanto ci sia ancora da fare sul piano dell’emancipazione dai falsi sentimenti e dalle ingannevoli seduzioni, per entrambi i sessi.
Spesso le donne lamentano che, alle loro denunce, la giustizia risponda con contromisure irrisorie nei confronti dei rei aggressori. In pratica le donne hanno paura di denunciare anche perché scoraggiate dall’impunità con cui se la cavano i partners violenti e anche questo è un bel tema su cui interrogare i criteri operativi della giustizia giuridica.
I femminicidi sono anche figli di una “incultura sociale” che ha alimentato la subordinazione del femminile nei secoli, un’incultura di cui le cosiddette religioni istituzionalizzate sono ampiamente responsabili, ma su questo versante, come di regola, tutto tace.
Pierangelo Scala