Essere pacifista significa essere contro la guerra

Tantissime piazze italiane si stanno riempiendo per la Palestina in queste settimane. Perché Gaza è diventata un campo da tiro per l’esercito israeliano, una terra di massacro puro – nel mezzo della quale, sta avvenendo un genocidio. Oltre a medici, giornalisti e altri che vengono uccisi quotidianamente, vi è l’intero popolo palestinese che sta subendo una soluzione finale per mano dell’esercito israeliano.

A chiedere un cessate il fuoco sono tantissime voci, la maggioranza delle quali sono legate al più ampio movimento pacifista che, da febbraio dell’anno scorso, è sempre più centrale nel controbilanciare la voce militarista dei padroni nei media e nei grandi partiti.

Davanti al massacro in Palestina, noi del movimento pacifista*, ci chiediamo, da qui, che fare. Ebbene allora pensiamo ai due nostri unici strumenti: le parole e le azioni. Per comprendere la misura in cui questi possono essere efficaci, dobbiamo valutare il contesto in cui li impieghiamo.

 

Le parole: “il terrorismo” di Hamas, di tutti o di nessuno?

In occidente, attraverso le parole dei media e dei governi, si sta cooperando con questo massacro e genocidio.

Come? Con la solita carta mediatico-politica della “guerra al terrorismo”.

Si dice “Hamas fa attacchi terroristici, quindi Israele si difende bombardando Gaza”. È una storia già sentita. È la solita giustificazione che viene data, quasi sempre per spiegare l’uccisione di arabi, per lanciare le bombe della democrazia in tutto il mondo e per legittimare l’aumento della militarizzazione degli stati tramite politiche securitarie.

Dobbiamo riflettere quindi sull’uso della parola “terrorismo”.

In forma essenziale, nel diritto internazionale, la parola “terrorismo” indica azioni criminali violente premeditate aventi lo scopo di suscitare terrore nella popolazione.

Mezzo secolo di omicidi, incarcerazioni, bombe e violenze del governo Israeliano sulla popolazione palestinese: cosa sono se non “terrorismo”?
Vivere a Gaza, da decenni, significa vivere in stato di terrore permanente. Oggi ancor di più, senza medicine, cibo, acqua, riparo dalle bombe e senza prospettiva di ritiro delle truppe israeliane! Lo stato Israeliano dovrebbe essere definito terrorista. Eppure non lo è.

La strategia della “war on terror”, inventata dagli USA, funziona proprio così.

Un governo potente commette crimini di terrore. Poi un gruppo militarizzato violento risponde con altri crimini di terrore. A quel punto, il governo potente dice “quelli sono dei terroristi, dobbiamo fermarli con le armi e con tutta la violenza necessaria”. E così si giustificano alla propria popolazione e alla cosiddetta comunità internazionale ogni sorta di crimine e violenza che seguiranno. Come dice Chomsky, “Per i potenti, i crimini sono quelli commessi da altri”. Non è una storia familiare?

Allora, o quando chiamiamo Hamas terrorista, decidiamo di chiamare anche Israele stato terrorista, oppure nessuno è terrorista, ma sono entrambi gruppi militari violenti in guerra che uccidono civili (come facevano i nostri governi e gruppi militari durante la seconda guerra mondiale).

Se non scegliamo tra una di queste due opzioni, non faremo altro che essere anche noi complici dell’atmosfera di “guerra al terrorismo” che sta letteralmente legittimando un massacro e un olocausto.

Le azioni: chiedere “la pace” a tutte le parti in egual modo, o con proporzione politica?

Riguardo alle azioni che possiamo compiere dobbiamo comprendere quali forze ci sono in gioco in questa situazione.

Comparato a quello di Hamas, l’esercito di Israele è incredibilmente più potente: Israele è una delle prime venti potenze militari al mondo.

Ora, tra due che lottano, se uno ha un bastone e l’altro un mitra, mi sembra evidente che, se si desidera terminare lo scontro quanto prima- senza nulla togliere alla responsabilità morale della violenza perpetrata da entrambi- dovrà smettere per primo quello col mitra.

Oltre che applicare il principio nonviolento di non-cooperazione militare con Hamas e con Israele, dobbiamo anche smettere di pensare che possiamo, in ogni discorso pubblico, metterli sulla stessa barca in termini di responsabilità politiche rispetto a questo conflitto. Perché ciò non è propedeutico a terminare il conflitto stesso.

Noi dovremmo affermare il seguente: Hamas è responsabile dei morti che ha fatto; Israele idem. Questo è un fatto morale.

Ma in termini politico-militari, rispetto alla prospettiva di de-escalation e di cessate il fuoco, è urgente sottolineare la responsabilità di Israele, che è notevolmente più potente di Hamas.

Perché lo sappiamo che la soluzione per la pace è il riconoscimento dello stato palestinese, l’abbandono dei territori occupati e la fine delle politiche sioniste di apartheid da parte del governo Israeliano.

E qui sta la differenza tra un pacifismo puramente moralista che si erge a Minosse dei viventi riducendo la propria presenza pubblica a una meccanica assegnazione delle colpe morali delle parti e un pacifismo politico che interviene a modificare l’attenzione pubblica con l’obiettivo strategico di far pesare le proporzioni in gioco così da neutralizzare gli effetti mistificatori della propaganda militaristica.

È per questo che noi del movimento pacifista dobbiamo riempire le piazze oggi: per non cooperare con la manipolazione mediatica della “guerra al terrorismo” e per chiedere un cessate il fuoco immediato, ricordando che il massacro corrente è totalmente sproporzionato per le parti in gioco e che è nostro dovere storico e politico denunciare e fermare l’olocausto del popolo Palestinese da parte del governo Israeliano.

Prima che sia troppo tardi.

Federico Giovannini

* Essere pacifista non significa, come sosterrebbero tanti/e con l’elmetto, essere per la pace. Significa essere contro la guerra.