Oltre un centinaio di persone all’incontro sul “decreto in-sicurezza” di sabato 19 gennaio. La voglia di informarsi è tanta, ma ancor più sentita è l’esigenza di una risposta politica che combatta la deriva inumana prodotta dal decreto
«Mi sento di lanciare un appello: non restiamo soli, aiutiamoci a vicenda». Le parole di Armando Michelizza con cui si è concluso l’incontro di sabato 19 gennaio allo ZAC! d’Ivrea rispecchiano fedelmente lo spirito delle tante persone accorse per cercare di comprendere come cambierà la vita di molti migranti con il decreto sicurezza.
Alle 16.00 di un sabato pomeriggio ci si sarebbe aspettati un numero ristretto di partecipanti; invece, con grande sorpresa anche da parte degli organizzatori, più di un centinaio di persone hanno riempito l’atrio dello ZAC!, a testimonianza di come una parte d’Ivrea non si rassegni ad accettare passivamente il decreto sicurezza.
La prima a prendere la parola è stata la presidente del Consorzio In.Re.Te. Ellade Peller: «è doveroso ricordare come a suo tempo questo territorio abbia fatto una scelta, ovvero quella di occuparsi di una micro accoglienza diffusa che si è rivelata una strada giusta. Oggi ci si muove in maniera opposta». E con il decreto sicurezza sta già cambiando qualcosa sul territorio? «Abbiamo ricevuto una lettera dal Prefetto che ci ha comunicato che per il momento nulla cambia. Ciò nonostante, l’assemblea dei sindaci è stata perentoria: nel momento in cui ci fossero stati cambiamenti significativi i comuni non sarebbero più andati avanti con il percorso d’integrazione e si sarebbe restituito l’onere dei CAS del territorio (attualmente gestiti dal Consorzio, ndr) alla Prefettura».
Da accordi con la Prefettura, il Consorzio In.Re.Te ha tutt’oggi una capienza massima di ospitalità pari a 330 posti, di cui 306 effettivi e occupati. Di questo numero, 219 migranti sono in attesa di un responso da parte della commissione territoriale (con tempi d’attesa che vanno da un anno a un anno e mezzo circa); 51 persone hanno invece già fatto ricorso contro un precedente diniego; 5 persone hanno ottenuto il riconoscimento di asilo politico e 20 sono detentori di un permesso umanitario ottenuto prima del 4 ottobre 2018 (data di emanazione del decreto Salvini).
Nel breve periodo sono queste 20 persone che rischiano maggiormente di finire “in mezzo a una strada” (il decreto prevede che chi ha un permesso di soggiorno non può più essere sotto la gestione dai CAS); tuttavia fino a quando la Prefettura non darà ulteriori disposizioni non ci saranno cambiamenti.
Ma di quali cambiamenti stiamo parlando? Laura Martinelli, avvocato dell’associazione ASGI, è intervenuta sabato 19 per fare un po’ di luce sulle conseguenze del decreto sicurezza e immigrazione. «Cominciamo col dire che questa legge crea una precarizzazione della vita dei migranti in modo scientifico. È anche una questione lessicale, perché il termine umanitario viene espunto dalle pagine del decreto». Martinelli ne illustra per filo e per segno i contenuti. «La protezione umanitaria, in breve, copriva tutta una serie di casi particolari che non rientravano nelle altre forme di protezione. Valeva 2 anni e poteva essere convertita in un altro tipo di permesso, come ad esempio un permesso per lavoro. Oggi non sarà più così».
Ed ecco sorgere le prime contraddizioni: il decreto è retroattivo oppure no? Chi aveva ottenuto il permesso prima del 4 ottobre potrà far valere la vecchia legislazione? O dovrà attenersi a quella nuova? La confusione generata da questo decreto è tale che nemmeno la commissione nazionale ha raggiunto un verdetto definitivo, costringendo le 20 persone con permesso umanitario all’interno del Consorzio ad una sorta di limbo burocratico.
Nel caso la commissione deliberasse per la non retroattività del decreto i 20 migranti potrebbero, in teoria, fare una scelta: tornare davanti ad una commissione territoriale oppure convertirlo con un permesso di soggiorno per lavoro. In pratica, Martinelli ha spiegato che le chances per convertire il permesso sono poche, non solo perché i migranti devono avere un lavoro al momento della richiesta, ma anche possedere il passaporto, un documento estremamente difficile da ottenere e da farsi rilasciare dalle ambasciate dei paesi d’origine.
Sono tante le casistiche che questo decreto sta facendo nascere e che Laura Martinelli ha presentato durante l’incontro, ma ciò che colpisce maggiormente è l’impianto, la ratio ultima che si vuole raggiungere: «Il progetto è quello di gestire il fenomeno alla frontiera, soprattutto al Sud, dentro gli Hotspot che possono ora valutare direttamente le domande d’asilo senza possibilità d’udienza alcuna per i migranti. Lo scopo è quello di bloccare la maggior parte delle domande alle frontiere». Con questo obiettivo di fondo appare evidente come i percorsi d’accoglienza diventino superflui. Se non c’è nessuno da accogliere e da integrare si può tranquillamente smantellare il sistema degli SPRAR. Come se non bastasse, tutti i richiedenti asilo non potranno più iscriversi all’anagrafe, impedendo così l’accesso ai servizi pubblici.
Su questo punto Martinelli asserisce: «è inconcepibile che lo Stato vieti l’iscrizione all’anagrafe. Come può lo Stato non sapere chi è presente sul suo territorio? L’ASGI ritiene che questo decreto, nel suo complesso sia incostituzionale».
Al termine dell’incontro ci si parla, ci si confronta e piovono le domande dal pubblico, molte delle quali formulate direttamente dai migranti del territorio per cercare di capire come poter aggirare la legge e poter continuare a vivere “serenamente” senza perdersi dietro le fitte maglie di questo decreto o senza finire nel girone dell’illegalità. Se ho un tirocinio, posso convertire il permesso in lavoro? L’adozione vale come canale per uscire dalla logica del “permesso” (si, si può fare dice Martinelli)? Posso avviare le pratiche di conversione del permesso anche se non ho ancora i documenti?
I casi particolari sono molti, troppi da riassumere in poche righe. Tra il pubblico serpeggia il desiderio che questo decreto venga, nel più breve tempo possibile, dichiarato incostituzionale, ma si è tutti consapevoli che questo richiederà diversi anni. Nel frattempo, che fare?
«Ci sono comuni, di cui non farò il nome, che stanno continuando a fare le iscrizioni all’anagrafe» ci racconta Martinelli. «Vi posso anche dire che non è reato ospitare una persona priva di documenti». Il richiamo alla disobbedienza civile è netto, chiaro; ma risulta essere ancor più confortante attraverso quel semplice appello lanciato da Michelizza al finire dell’incontro: «non restiamo soli, aiutiamoci a vicenda».
Andrea Bertolino