Due articoli e una lettera

Parole e pensieri, da e verso il carcere, partendo da tre articoli pubblicati su La Fenice

Recentemente, leggendo “La Fenice”, l’inserto di Varieventuali curato da una redazione nel carcere di Ivrea, mi sono soffermato sugli scritti di due detenuti e sulla lettera che una madre accoratamente invia al proprio figlio, anch’egli in cella per scontare la sua pena e recentemente trasferito da un carcere all’altro.
Tutti questi scritti esprimono stati d’animo simili e al contempo diversi come tessere di un mosaico che, lette insieme, possono fornire preziosi spunti di riflessione. Temi centrali, della vita dietro le sbarre, come noto, sono il disagio, la frustrazione, il senso di alienazione, di smarrimento della propria identità e anche di scollegamento con la realtà del mondo esterno che, in quanto non più sperimentabile, diventa un’esclusiva dell’immaginazione.
Considero attentamente quest’ultimo aspetto leggendo quanto scrive Vespino. Vespino ha avuto un’infanzia e una giovinezza a contatto con la natura, aveva un paese con i campi dove osservare crescere il grano e sentire i profumi della primavera. Oggi il suo mondo di ieri è evocato soltanto da una piccola finestra, quella della cella dove è rinchiuso. Quella piccola apertura sull’esterno, quell’angolo ancora visibile di mondo, sono la sua ancora di salvezza. Un’ancora, delimitata da una cornice angusta dove lo sguardo è ostacolato e filtrato da una grata di ferro sbiadita e a forma di alveare. Ma attraverso quella grata, lui ha imparato ad aguzzare la vista rendendola più sottile con l’immaginazione, ha imparato a indirizzare la prospettiva, a cogliere nella minuzia del dettaglio il riflesso integrale del mondo. Una sola nuvola o un solo raggio di sole possono raccontare l’intero cielo. Così il trattore che rumoreggia lungo il pezzetto di strada, intravisto dalla finestra, diventa quello che vedeva passare nel paese della sua infanzia. Così i fuochi d’artificio e di festa che illuminano una notte d’estate o le luci colorate che narrano, in inverno, la fiaba del Natale, sono il suo passaporto verso quella libertà che un giorno gli verrà restituita.
Ma il piacere di una ritrovata libertà, per quanto fondamentale, non sarà mai così importante come quella, da lui già maturata, che viene dallo spirito di osservazione e dalla crescita della consapevolezza. E questa libertà prioritaria si è rafforzata in lui da quando ha deciso di elaborare la sua esperienza carceraria, di meditarci sopra con scrupolo e volontà. Ci sono due percorsi da seguire, dice nello scritto, lasciando intuire che il primo dovrebbe essere quello finalizzato al reinserimento sociale previsto dalle istituzioni, e poi quello, più difficile e personale, dell’esplorazione interiore. Certo, a volte l’immaginazione può venir meno, i buoni progetti e la speranza di riscatto anche. A volte Vespino allungherà il braccio oltre le maglie dell’inferriata nello sforzo, che non vuole sentire ragioni contrarie, di toccare fisicamente la cima di una collina. A volte il bisogno di realtà diventa così forte da fugare l’immaginario e lasciare, chi lo esercita, in balia dello sconforto.
Allora bisognerà raddoppiare il senso di fiducia in se stessi, coltivare più che mai la capacità di volersi bene. In questo caso Vespino non dovrà temere che il mondo lo lasci indietro perché avrà imparato ad amarlo meglio di prima.

Il secondo scritto è quello sostanzialmente più arrabbiato di VR. Uno scritto dove emergono i problemi ricorrenti che il carcere di oggi riserva e che mettono in fila: degrado, sovraffollamento, disumanizzazione, povertà delle strutture logistiche, precarietà dei servizi, disorganizzazione congenita, vessazioni arbitrarie, personale di sorveglianza inadeguato, detenuti abbandonati a se stessi e alla violenza degli eventi che la vita di galera non lesina. Insomma una sfilza di
problematiche e di situazioni, che poco o nulla afferiscono al progetto di reinserimento sociale e al rispetto della dignità del recluso. Il peggioramento delle condizioni carcerarie è avallato dal crescente numero dei suicidi, uomini e donne, non solo tra i carcerati ma anche tra il personale dello Stato, che la fanno finita, che crollano psicologicamente sotto il peso delle brutture trasversali insite nel sistema carcerario. VR si chiede fino a che punto si può restare indifferenti all’aumento frequenziale dei suicidi, prova evidente di come il carcere non riabiliti e quindi non serva a nulla. Queste considerazioni sono sacrosante, ma andrebbero però connesse, a mio parere, a quelle di Vespino, che non delega soltanto all’esterno, e quindi al sistema, le responsabilità dei cambiamenti ma li prescrive anche a se stesso, come frutto di una personale iniziativa. Non me ne voglia VR, e mi corregga come e quando vuole, ma sperare che le soluzioni arrivino sempre dall’alto, e dall’altro, è spesso un’illusione. Lo Stato evolve se evolvono individualmente i suoi cittadini e così la società e così il carcere e non viceversa (secondo me). Credo che il carcere sia principalmente lo specchio
incrinato della società a cui appartiene. Sicuramente la libertà, come tutte le cose di cui si comprende a fondo il significato solo quando si sono perdute (vale per tutti, sia dentro che fuori dalla galera), può chiarirci meglio le idee sulla condotta da seguire in futuro. Credo sia anche lecito constatare, in via generale, come chi non abbia rispettato i diritti altrui, commettendo o incappando nell’illecito, diventi spesso molto zelante, in carcere, nel reclamare il rispetto dei propri diritti.
Non intendo fare nessuna morale né polemizzare, intendiamoci, tutt’al più fornire un contributo alla necessità dell’autocritica, sempre formativa e auspicabile anche nel panorama di insufficienze che il carcere evidenzia. In ogni caso occorrerebbe affrontare queste ultime, non solo con la veemenza delle parole che lamentano e denunciano, ma anche con le proposte, magari partendo proprio dai pensieri di chi il carcere lo soffre e lo vive da tempo. Sulle contraddizioni del sistema e sulla pretesa di giustizia bisognerebbe anche interrogarsi sulle leggi che vigono in carcere, quelle non scritte, che funzionano in maniera patriarcale nel cerchio gerarchico dei detenuti e che credo contraddicano di
molto i dettami di una società cosiddetta civile e anche le buone aspirazioni degli stessi carcerati.
Concludo, facendo riferimento al terzo scritto e cioè alla lettera della madre che scrive al figlio ormai assuefatto alle regole di vita del penitenziario e acquietato anche dalle facili e spesso spregiudicate somministrazioni di farmaci, e che si aggancia, come in un domino, a quanto espresso da Vespino e da VR.
Le parole di questa madre denunciano, come VR, le aberrazioni del sistema e al contempo, come Vespino, invitano alla riflessione che può produrre il risveglio della coscienza individuale.
Questa madre, non per moralismo, come lei stessa precisa, ma per coerenza interiore con il suo sentire, ammonisce in modo appassionato il figlio. Lei lo interpella sul senso del suo agire che, nell’idea ingenua di beffare una società ingiusta, ha commesso, a sua volta, altre ingiustizie che gli hanno spalancato le porte del carcere. Le sue sono parole che colgono nel segno perché dettate dalla bontà dell’istinto materno, parole che suggeriscono attenzioni preventive contro il pericolo di scivolare nell’illegalità. É una lettera che mette in guardia, è il calore di una donna dotata di saggezza, una donna che comprende, insegna e perdona.

Pierangelo Scala