“Da quando sono tornata sabato sera ho addosso un peso enorme, una specie di uccello nero sulla spalla. E un luogo comune nella testa: ‘sono cose che ti cambiano la vita’. Vorrei che gli occhi di tutti quelli che hanno vissuto questa storia si trasformassero in enormi schermi giganti, non stop, perché adesso, come sempre o come forse mai, è vitale andare avanti andare avanti in quanti più possibile. Voi l’avevate capito che siamo come il Cile, o l’Argentina? Io no, e questa è un’altra cosa su cui vorrei riflettere tutti insieme, perché almeno se scampiamo capiremo come fare a non tornare indietro. E che dobbiamo avere ben chiaro che li ritroveremo in tutte le nostre manifestazioni, confusi con noi, perfettamente addestrati tanto da non aver quasi bisogno di parlarsi, e che cercheranno di legarci con il loro assurdo a mortale filo nero.
A un certo punto ho visto sfilare un pezzo di corteo che non finiva più. Erano greci, del Partito Comunista. Tra loro c’era anche un vecchio; camminava un po’ a fatica, e a volte si appoggiava al bastone della sua bandiera per camminare. Un uomo vicino a me è andato dritto verso di lui e gli ha detto qualcosa, aiutandosi con i gesti, e da lì in avanti hanno continuato un pezzo di strada insieme. Ho sentito solo la parola ‘partisan’:
Il nostro, di filo, quello rosso (quello che è arrivato fino agli ultimi piani delle case signorili che vanno al lungomare, acchiappando il cuore delle signore prima impaurite, poi esitanti, che alla fine fanno finta di non vedere il poliziotto appostato sul tetto e ci tirano grandi secchiate d’acqua per rinfrescarci) quello sarebbe meglio tenerlo srotolato, alto e visibile.
Siamo di più e dalla parte della ragione.
Cazzo, vorrà pure dire qualcosa”.
Ho ritrovato questo pezzo scritto per il numero di varieventuali del 25 luglio 2001 ed è stato come aprire un cassetto pieno di ricordi. Ci ho infilato le mani dentro dopo vent’anni e ho tirato fuori i ricordi alla rinfusa, forse intuendo che non li avrei mai potuti rimettere a posto. Ho ritrovato la sera in cui veniamo a sapere che hanno ucciso Carlo. La mia amica è disperata, perché i suoi due figli poco più che adolescenti sono a Genova da qualche giorno e non riesce a contattarli. Le dico “se vuoi partiamo ora”; poi decidiamo di aspettare il mattino e il pullman della CGIL. Ho ritrovato mia madre a cui chiedo di occuparsi di mio figlio che ha solo sette anni. Per la prima volta ci affrontiamo a muso duro; per la prima volta mia madre non condivide una mia scelta politica; per la prima volta mi urla addosso parole pesantissime. (Quante volte ricorderemo, negli anni a venire, quella sera). Ritrovo Carla che poi avremmo perso un XXV aprile anni dopo e con cui faccio un pezzo di strada di corsa con gli occhi che mi bruciano da morire perché un lacrimogeno ci ha sfiorate poco più in là. Carla che, appena riusciamo a prendere fiato, mi parla come un fiume, di repressione, di resistenza, di costruzione di altre forme di politica. Ma tra tutti il ricordo più chiaro è che, allora, esattamente come oggi, so che “loro” hanno bisogno di annientare il conflitto, negarlo, disconoscerlo come parte della società e condizione necessaria perché la Storia vada dalla parte giusta. La nostra. E che dobbiamo riprendercelo e imbracciarlo come un fucile.
Simonetta Valenti