Copenaghen, la pièce andata in scena Venerdì 2 febbraio al teatro Giacosa, con la mirabile interpretazione di Umberto Orsini, Giuliana Lojodice e Massimo Popolizio, non è una storia come tante. Fa parte, soprattutto quest’anno, di una riflessione riportata a galla (sebbene mai inabissata) dal Nobel per la Pace dato a ICAN, le associazioni che lottano per abolire le armi atomiche. E non è neanche una storia semplice, perché tira in ballo le più rivoluzionarie teorie della fisica degli ultimi cento anni. E’ necessario quindi procedere con ordine per raccontare cosa c’è dietro e attorno al più misterioso dei colloqui di cui tanto si è scritto e parlato.
Era il 1941, la Danimarca era occupata dalla Germania nazista, quando il fisico Niels Bohr, premio Nobel nel 1922, riceve la visita del suo allievo prelidetto Werner Heisenberg, premio Nobel nel 1932. I due, un tempo stretti collaboratori e padri dell’Interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica, non si vedono da parecchi anni, divisi dalla guerra e dalla politica folle del Terzo Reich: Heisenberg continua a risiedere e lavorare in Germania, dove nel 1927 si è guadagnato la cattedra all’Università di Lipsia, Bohr è sorvegliato speciale nella sua Danimarca, salvo grazie alla fama mondiale che lo avvolge.
Insieme ad Einstein, Fermi, Hahn, Weizsäcker, solo per citare i più noti, sono i fisici europei che in quegli anni stanno portando avanti studi sulla fisica nucleare e sono dunque appetibili per i due fronti opposti di guerra. Ormai è chiaro a tutti quali possono essere gli usi della fisica nucleare in ambito militare.
Bohr è quasi certamente in contatto con gli scienziati che già hanno lasciato la Germania nazista per Stati Uniti o Inghilterra (lui stesso lascerà la Danimarca nel 1943) e Heisenberg è controllato a vista dalla Gestapo. Perché Heisenberg, in viaggio per una conferenza, vuole dunque far visita a Bohr? Perché ha così necessità di parlargli? E sopratutto, che cosa si dicono i due, quella sera di fine settembre, nel giardino di casa Bohr?
Nel libro del 1956 “brighter than a thousand suns”, l’autore Robert Jungk, pubblica l’estratto di una lettera inviategli da Heisenberg, nella quale il fisico racconta la sua versione dei fatti di quella visita a Bohr: confessargli che, sotto la sua direzione, il pool di scienziati tedeschi impegnati nella costruzione di un reattore non lo avrebbero mai messo a punto e chiedergli di passare questa informazione agli americani, per evitare l’uso delle armi atomiche durante il conflitto.
Nel 1998 il commediografo inglese Michael Frayn mette in scena per la prima volta l’opera dal titolo Copenaghen, che narra di quell’incontro e propone due versioni del colloquio (i personaggi si ritrovano dopo essere morti e ripercorrono i fatti). Entrambe le versioni però espongono una ferita della storia ancora aperta: la responsabilità etica e morale della scienza di fronte al suo uso in ambito militare, soprattutto riferita alla bomba atomica esplosa sul Giappone nel 1945. Sia che Heisenberg abbia voluto far arrivare un messaggio agli americani tramite Bohr, prima ipotesi, sia che gli abbia proposto di tornare in Germania e lavorare con lui, seconda ipotesi, è certo che la questione morale è stata il fulcro del colloquio e sicuramente anche il motivo della rottura dei rapporti tra i due. In più di una battuta il personaggio Heisenberg accusa la Storia di averlo condannato nonostante la bomba l’avessero costruita e sganciata gli Stati Uniti, con l’aiuto anche di Bohr, sottolineando che la reputazione di Bohr è invece rimasta intatta. Ne esce un quadro in cui non ci sono vincitori, né tanto meno cuori immacolati.
L’uscita del lavoro teatrale, sollevò una tale polemica da convincere la famiglia Bohr a rendere pubbliche anticipatamente alcune lettere scritte dal fisico danese a Heisenberg e mai spedite; le lettere avrebbero dovuto essere rese pubbliche solo nel 2012 a 50 anni dalla morte dello scienziato e ora sono leggibili sul sito www.nbarchive.dk, cioè l’archivo di tutti gli scritti di Bohr (la prima datata 1957 è particolarmente interessante). Va da sé che il contenuto delle lettere smentisca clamorosamente l’ipotesi numero uno, propendendo per quella numero due. Ma dovremmo sapere che giudicare la Storia col senno di poi non è un buon metodo per riuscire a cogliere le mille sfumature degli eventi e le loro implicazioni nel qui e ora vissuto in tempo reale. Ed è un paradosso nel paradosso che a Heisenberg, conosciuto per il principio dell’indeterminazione che mette in luce i limiti della conoscenza della realtà, e che tanto fece imbufalire Einstein, sia toccata la sorte di essere oggetto dell’impossibilità di determinare quali siano state la sue intenzioni quella sera di settembre a Copenaghen, e che tale incertezza sia ancora oggi oggetto di profonda inquietudine.
Inutile dire che la bravura interpretativa di Orsini, Lojodice e Popolizio, alle prese con questo lavoro per la seconda volta (la prima nel 2010 con una produzione Emlia Romagna Teatro e la regia di Mauro Avogadro), nonostante la difficoltà del testo, fitto di botta e risposta scientifici piuttosto complessi da cogliere, abbia garantito un momento di grande teatro, catturando gli spettatori dalla prima all’ultima battuta, grazie ad una perfetta gestione del cambio di ritmo accompagnata da movimenti misurati e mai fuori posto, resi ancor più forti da una suggestiva scenografia (una grande aula con pareti di lavagna stracolmi di formule).
-Dio non gioca a dadi con l’universo (A. Einstein)
-Smettila di dire a Dio cosa fare coi suoi dadi (N. Bohr)
Lisa Gino