Alfredo Cospito e la repressione a Torino: le radici locali di un caso nazionale.
Nel 2014 Alfredo Cospito viene condannato a 10 anni e otto mesi per l’attentato all’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi, rivendicato dal Nucleo Olga Fai-Fri (Federazione anarchica informale-Fronte rivoluzionario internazionale). Successivamente la procura di Torino avvierà il maxi procedimento Scripta Manent, a carico di militanti della Federazione anarchica informale per una serie di reati compiuti tra il 2003 e il 2016. Nel corso del procedimento riterrà Cospito “capo e organizzatore di un’associazione con finalità di terrorismo” e autore di un attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano, dove nella notte tra il 2 e il 3 giugno 2006 esplodono due ordigni a basso potenziale senza fare morti né feriti. Per questi reati Cospito verrà condannato in primo e secondo grado a vent’anni di reclusione.
A luglio però la corte di cassazione ridefinisce il reato: da “strage contro la pubblica incolumità” a “strage contro la sicurezza dello stato” e ordina un nuovo processo d’appello. Il nuovo reato prevede l’ergastolo ostativo: Cospito non può quindi usufruire di benefici penitenziari, a meno che non decida di collaborare con la giustizia. Inoltre ad aprile arriva il decreto ministeriale applicativo del 41 bis, motivato dal Ministero della Giustizia dal fatto che “sarebbe in grado di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell’organizzazione eversiva di appartenenza”.
Cospito ha 55 anni, si professa anarchico ed è rinchiuso in regime di 41 bis nel carcere di Bancali a Sassari, dove dal 20 ottobre scorso ha iniziato uno sciopero della fame contro le condizioni a cui è sottoposto.
Il sistema Torino e le radici locali del caso Cospito
Il caso di Alfredo non è un episodio isolato. È il culmine di un processo che vede Torino distinguersi per un uso sproporzionato degli strumenti repressivi, conducendo esperimenti giuridici e mediatici ad ampio raggio. La guerra al movimento No Tav e ai centri sociali ha fatto scuola.
L’uso del termine terrorismo in maniera impropria, l’abuso del reato di associazione a delinquere contestato a gruppi politici di protesta, il rispolvero della sorveglianza speciale (erede del confino fascista) verso soggetti considerati “socialmente pericolosi” (tra gli altri, un attivista del gruppo ecologista non violento Ultima Generazione).
Gli esempi sono numerosi, ma con gli anarchici in particolare la Procura torinese ha sempre avuto la mano pesante: all’epoca dello sgombero dell’Asilo Occupato, quando un intero quartiere venne posto in stato di fermo con un dispiegamento militare e poliziesco da occupazione israeliana, agli anarchici fu contestato il reato di eversione. Un’accusa spropositata decaduta (come era ovvio che fosse) pochi giorni fa, con gli anarchici condannati per reati bagatellari. Anche nel caso di Cospito è stata la Procura di Torino a chiedere la riqualificazione del reato da tentata strage a strage contro lo Stato, reato per cui non esistono differenze tra compiuta e tentata, meccanismo che fa scattare automaticamente l’ergastolo ostativo.
A pensarci bene però, forse le radici di questa storia sono ancora più vicine di così. Se non si vuole peccare di memoria corta, bisogna ricordare anche la storia di altri due anarchici: Sole e Baleno, i cui volti sorridono ancora da alcuni muri di Ivrea. Condannati a una pena spropositata, la rifiutarono utilizzando i loro corpi e le proprie vite come ultimo strumento di lotta, in modo al contempo simile e diverso da come sta facendo ora Alfredo. Non vorremmo vedere questa storia concludersi allo stesso modo. Non vogliamo altri martiri.
Il corpo come ultima barricata
Di scioperi della fame negli ultimi decenni ne abbiamo visti parecchi: simbolici, mediatici, a intermittenza o a staffetta. La memoria rimanda rapidamente a Pannella, al Partito Radicale e ad alcuni esponenti del PD, tra i più ferventi digiunatori degli ultimi decenni, spesso a favore di telecamera o per cause futili, tanto da inficiarne il valore e rendere il concetto inflazionato.
Lo sciopero della fame di Alfredo non ha niente a che vedere con i tre cappuccini al giorno di Pannella, non è qualcosa che si interrompe perché un dottore ritiene che continuare sia pericoloso. È la scelta di chi si riappropria del proprio corpo immolandolo a una causa, strappandolo al limbo al quale lo vorrebbero condannato quelle aberrazioni giuridiche che sono il 41 bis e l’ergastolo ostativo. È qualcosa che ricorda i grandi e più famosi scioperi della fame del passato, come quello di Bobby Sands o del militante della RAF Holger Meins. La foto del cadavere di quest’ultimo, distrutto prima dalla fame e poi dall’alimentazione forzata, è tanto terrificante quanto necessaria da vedere se si vuole capire.
Nonostante se ne parli poco o nulla, quello di Alfredo non è il primo sciopero della fame nelle carceri italiane: Salvatore “Doddore” Meloni, indipendentista sardo, muore nel 2017 nel carcere di Uta dopo essersi dichiarato prigioniero politico. Stesso destino per Gabriele Milito, ingegnere morto per protesta verso le condizioni delle carceri calabresi nel 2018, e per Carmelo Caminiti, a cui nel 2020 rifiutarono la richiesta dei domiciliari nonostante le condizioni di salute. Tutti casi di cui non si è quasi parlato, tre persone morte di fame nell’indifferenza generale di Stato e media. Il caso Cospito poteva finire allo stesso modo, se così non è stato lo si deve a un lavoro di protesta continua e capillare avvenuto a più livelli negli ultimi mesi, ma in particolare all’esplosione dell’auto di Susanna Schlein, prima consigliera dell’ambasciata italiana in Grecia e sorella della pasionaria PD Elly, messa a punto dagli insurrezionalisti ellenici in segno di solidarietà. Senza quell’esplosione oggi forse non ne staremmo nemmeno parlando, nonostante gli ormai 95 giorni di sciopero della fame. Bobby Sands morì dopo 66 giorni, Holger Meins dopo 57, Salvatore Meloni dopo 68. Cospito ha perso 40 kg, si sta alimentando solo ad acqua e zucchero ed è noto che stia rifiutando le cure. Con ogni probabilità morirà in carcere, mettendo a nudo per un momento tutta la compiaciuta smisuratezza dello Stato, che risulterà colpevole di aver ucciso un uomo che non ha mai ucciso nessuno. Se così fosse, Alfredo Cospito avrà vinto la battaglia, diventando suo malgrado un martire della lotta al 41 bis e alla repressione, affilando l’odio dei compagni che verranno dopo di lui.
Sarebbe bello finisse meglio di così.
Lorenzo Zaccagnini