Comdata e Arca sono le due vicende aziendali che tengono banco in questi giorni in Canavese e ben rappresentano una realtà che vede la ripresa confinata negli ordini in crescita di qualche impresa o nelle aspettative di una parte degli imprenditori, ma che molto poco viene percepita dai lavoratori.
Comdata è la più grande impresa privata di Ivrea, campione di quel mondo – i call center – che per buona parte ha soppiantato la precedente identità informatica dell’economia locale, con tanto lavoro usa e getta e bassi salari. E Comdata ben rappresenta lo spirito dei tempi, mentre vincitori e sconfitti dell’ultima tornata elettorale si crogiolano nello studio e nel ricordo di un modello industriale e sociale – quello dell’Olivetti – finito da oltre quarant’anni, con spunti d’interesse validi anche per l’oggi ma che sembra servire soprattutto alla candidatura Unesco di Ivrea.
Nessun moralismo, quindi, ma la semplice presa d’atto della realtà: Comdata è poco più di un conto terzista, esposta all’andamento delle commesse e ai processi di riorganizzazione dei committenti, in primis – in questo caso – Tim, la cui commessa si è dimezzata, passando tra febbraio e marzo da 1 milione e 400 mila chiamate a 700 mila.
E quindi cos’ha fatto Comdata? In primo luogo via gli interinali, ora la cassa integrazione, poi magari la chiusura di Innovis, con i suoi pochi lavoratori sopravvissuti al ricatto di essere assunti da Comdata in cambio di una riduzione del salario del 40%.
D’altronde è difficile trovare una ratio, che non sia la semplice riduzione dei costi, nelle scelte di un’azienda che ha call center sparsi in tanti paesi dove i salari sono molto più bassi che da noi, come la Romania, e la precarietà la fa da padrona.
Un po’ di numeri: gli addetti di Comdata sono 36 mila nel mondo, 6 mila in Italia, mille ad Ivrea, dove in questi mesi sono stati lasciati a casa 250 interinali, mentre gli interessati alla cassa integrazione, al momento per 13 settimane da aprile a luglio, sono 363, con una riduzione dell’orario del 50%.
Ad oggi l’attenzione dell’opinione pubblica su questa vicenda è stata modesta, come lo è stata nei mesi scorsi, dopo che Report e le organizzazioni sindacali hanno squarciato il velo d’omertà sulla condizione di centinaia di interinali, assunti e riassunti per periodi brevissimi, con orari variabili da un giorno all’altro!
Questo è il modello industriale e sociale che andrebbe studiato e contrastato.
Quella di Arca è una vertenza più improvvisa e imprevista, almeno per i non addetti ai lavori, già a partire dal nome che va declinato al passato, quando si chiamava Cts, azienda con due sedi (Ivrea e Bollengo), fondata 40 anni fa da ex-olivettiani, eccellenza nel campo dell’automazione bancaria. Nel 2014, complice una situazione di incertezza dovuta anche all’età avanzata dell’amministratore unico, Franco Ugo, viene appunto rilevata dall’americana Arca Technologies. In partenza ci sono stati investimenti significativi, in vista di risultati di mercato rivelatisi poi inferiori al previsto, tanto che già l’anno scorso c’è stato un ricorso alla cassa integrazione. Ora invece è arrivata la “mazzata” della procedura di licenziamento per 102 dipendenti su 282 (più un dirigente sugli 11 complessivi), con la pronta risposta dei lavoratori che hanno bloccato la statale per Viverone e presidiato poi, nei giorni successivi, la sede di Confindustria di Ivrea durante il primo incontro.
Questa storia presenta non poche analogie con quella della Selca, che tra l’altro si trovava di fronte alla sede della Cts di Ivrea: anche in quel caso l’humus era quello olivettiano, i prodotti di alto livello tecnologico, più colletti bianchi che operai, però tedesca la società che fece shopping, vale a dire l’Haidenhain. Una decina di anni fa ci fu una prima massiccia riduzione di personale a cui seguì in un secondo tempo la chiusura dello stabilimento.
Nel frattempo la struttura industriale di Ivrea si è ulteriormente rimpicciolita, l’Olivetti è definitivamente scomparsa – nonostante le illusioni colpevolmente avallate anche dagli amministratori di Ivrea, altre aziende già poco solide non hanno retto e sono tracollate, come la Ribes.
Nel caso di Arca la politica e le istituzioni hanno fatto subito sentire la propria voce, complice forse la vicinanza del voto per il Comune di Ivrea del 10 giugno, e il prossimo 4 aprile ci sarà un’assemblea pubblica in sala Santa Marta: il ruolo della politica sarà più efficace di quanto non sia stato in altre analoghe situazioni, come accaduto purtroppo di recente per la Sandretto di Pont?
Non si tratta né di un interrogativo retorico né di una domanda polemica: l’affollarsi di scadenze elettorali ravvicinate rappresenta un’arma a doppio taglio, come dimostra anche la vicenda Embraco. Cosa vuol dire essere vicini ai lavoratori? Cosa significa in concreto difendere il lavoro presente sul “nostro” territorio? A cosa si riferisce una deputata locale quando dice che “dobbiamo continuare a lavorare per valorizzare la nostra esperienza industriale”? Io sarò distratto ma non mi sono accorto di niente.
Alzare i toni in questo periodo diventa una tentazione troppo forte, però poi bisogna corrispondere alle aspettative che si creano, e quasi nessuno, dopo i risultati delle elezioni politiche e l’incertezza del voto di Ivrea, può sentirsi autorizzato a “sparare nel mucchio” senza responsabilità. E lo dico non in modo provocatorio, ma perché sono consapevole della difficoltà – e a volte dell’impotenza – che segna l’azione sindacale in processi di crisi e ristrutturazione dove le imprese “fanno quello che vogliono”, e sento altresì la disperazione delle persone che cercano “alleati” nella loro battaglia ma non sopportano la propaganda sulla loro pelle.
Federico Bellono