Con la sua ricostruzione storica delle leggi razziali antiebraiche (1938. Francamente razzisti. Le leggi razziali in Italia, Edizioni del Capricorno, Torino 2018) Claudio Vercelli contribuisce all’assolvimento di un duplice e difficile compito da cui ricercatori da un lato e docenti dall’altro non possono esimersi: quello di confrontarsi con la domanda tanto spontanea e ovvia quanto fondamentale e inaggirabile – perché proprio contro gli Ebrei? – e quello di verificare se o in che misura esistano continuità e riprese nel presente di quell’aberrante evento storico che senza alcun dubbio ha trovato terreno fertile nel nostro Paese ottanta anni fa.
Giusto e doveroso precisare subito che l’uscita di questo libro è avvenuta in coincidenza con una serie di interventi in alcuni licei di Torino e provincia previsti e programmati dallo studioso con il sostegno dell’Associazione comitato Colle del Lys. E ciò non solo per creare una più stretta collaborazione tra università e scuola secondaria, ma anche per venire incontro agli insegnanti che in questo periodo alquanto caotico e critico vedono diminuire sempre più le ore di didattica della storia.
Anche oggi il dispositivo razziale, come una malapianta, continua a funzionare e a dare i suoi frutti tossici, sebbene l’elemento su cui viene utilizzato non sia più (tanto) quello ebraico. Pur non indicandolo esplicitamente, il testo di Vercelli lascia intendere che l’obiettivo della campagna razzista oggi in corso in buona parte dell’Europa (non solo sovranista) non rientra più in una categoria specifica, non riguarda più un’etnia particolare, ma concerne una categoria polietnica nella quale si fanno rientrare a forza tutti i nuovi migranti, visti non come l’effetto ma come la causa di tutti i guai creati dal mondo, cioè dagli Stati a vocazione colonizzatrice. Anche in questo senso, pertanto, la storia parla al presente e del presente. E lo fa naturalmente attraverso lo storico, il quale – ecco l’aspetto da non trascurare nel saggio di Vercelli – lo fa in particolare registrando espressioni che hanno un valore sia diacronico sia sincronico, potendo essere riferite sia alla recente storia delle leggi razziste del ’38 sia al nostro stesso presente.
Ciò per dire che il motivo per cui Vercelli nel 2018 scrive un saggio sulle leggi razziali del 1938 non ha solo una valenza “commemorativa”, ma critica e di denuncia nei confronti del presente. Egli, in sostanza, non parla solo al presente, ma del presente e soprattutto dal presente, di cui intende rilevare la pericolosa vicinanza e adesione a quel passato perverso.
L’intento del saggio del nostro storico non è, pertanto, freddamente descrittivo, ma monitorio, proprio come ammonitive sono le parole vive dei testimoni della Shoah e della Resistenza. Fra sé e il suo presente egli non mantiene quella distanza propria dello spectare contemplativo dell’altrui gravoso travaglio. Tutt’altro. Attraverso il suo lavoro egli esprime un impegno e una partecipazione attiva al farsi della storia nel presente. Un impegno che risulta sia dai suoi recenti studi intorno al fenomeno della riemersione di quella perversione razziale (ora confluiti nel suo Neofascismi, uscito sempre nel 2018 presso il medesimo editore) – fenomeno che, a proposito del «fermento della destra radicale italiana» e della diffusione un po’ in tutta la penisola di CasaPound, in un articolo del dicembre del 2017 (apparso su «doppiozero»), egli caratterizza, come «fascistizzazione dal basso» –, sia dalla sua presenza in frequenti seminari, laboratori scolastici e incontri pubblici, come pure dall’attenzione riservata ad alcune espressioni attinte alla contemporaneità, delle quali si serve per riparlarci di quel fenomeno e soprattutto per farci constatare con mano che esso, questo fenomeno, è ben lungi dall’essere stato definitivamente chiuso, sigillato e sistemato in uno degli scatoloni polverosi degli archivi storici, in uno dei sarkophagoi della storia, nella speranza che la pietra calcarea riesca in ciò che risulta poco agevole alla memoria, ossia consumare in fretta quello che essa contiene.
Alcune delle espressioni più sintomatiche, dei modi di dire, ormai assorbiti come degli intercalari, assunti come dei luoghi comuni che ben presto diventano anche moneta comune negli scambi tanto rissosi quanto vuoti e nei logori dibattiti televisivi, nelle piazze e nei fori virtuali; alcune delle frasi che segnalano e comunque connotano diacronicamente, sincronicamente e fenomenologicamente la perversione razziale tracciandone idealmente e quotidianamente le condizioni di esistenza, si possono cogliere in quei passaggi davvero significativi del testo di Vercelli in cui si fa cenno ad esempio al «sottrarre il lavoro agli “italiani”», all’assenza delle «potenziali opposizioni» che facilita il compito alle destre (p. 57), oppure all’«indifferenza nei confronti delle vittime», alla «mancanza di empatia» (p. 79), come pure alla necessità di difendere «il perimetro dell’italianità» (p. 103), giacché «Per tutti, – scrive Vercelli – senza distinzioni, l’Italia aveva [ha] cessato di costituire una terra d’approdo e di salvezza, semmai rimanendo un territorio di transito verso altre mete» (p. 113). «Alla base di tutto – osserva ancora in maniera acuta e incisiva lo storico – c’era [e c’è] la feroce spoliticizzazione (corsivo nostro) che aveva [ha] investito la società italiana, tramutandola in un oggetto facilmente plasmabile dalle suggestioni che il fascismo sapeva offrire» con la sua «logica tanto opportunista quanto paternalista» condotta con «l’astuzia e il calcolo» (p. 91). Il fascismo – conclude lo studioso nell’ultimo capitolo – che «aveva [ha] lasciato un calco molto profondo, difficilmente riassorbibile in tempi brevi» (p. 140). E mai come oggi quel passato “imperfetto” è divenuto un “passato (così) prossimo”.
Riportando intenzionalmente, segnalando e cogliendo nel presente espressioni attuali ma cariche di passato, Vercelli ci aiuta dunque a capire che esse non sono altro che semplici e comode porte d’accesso linguistiche attraverso cui, passando per i mille cunicoli diacronici della lingua, ci si può ricongiungere a quel passato che, a quanto pare, non accenna a passare. Tali espressioni sono i prodotti diacronici di quelle «vibrazioni» del passato che, venendo più volte ripetute e quindi assunte come consueti modi di dire, finiscono con il creare condizioni generali e predisposizioni psicologiche, in ogni caso “aperture”, invisibili “feritoie” attraverso cui quella la perversione razziale può continuare facilmente a transitare e quindi ad attecchire.
Franco Di Giorgi