After Work

Martedì 7 maggio : ore 15.00– 17.10–19.20–21.30
Mercoledì 8 maggio: ore 15.30 – 18.00

Regia: Erik Gandini / Interpreti: Noam Chomsky, Elon Musk, Armando Pizzoni, Elisabeth Anderson (II) / Liberamente ispirato dagli scritti sull’ideologia del lavoro di Roland Paulsen / Fotografia: Fredrik Wenzel / Musiche: Johan Söderberg / Montaggio: Johan Söderberg / Distribuzione: Fandango / Origine: Svezia / Durata: 77′

Documentario

Scheda filmografica 27

La nostra è una società basata sul lavoro. Fin dall’infanzia ci viene insegnato ad essere orientati al risultato e ad essere competitivi. La maggior parte dei lavori esistenti oggi potrebbe scomparire nei prossimi 15 anni per via dell’automazione e dell’intelligenza artificiale. Potremmo presto dover ripensare al ruolo che il lavoro ha nelle nostre vite come elemento centrale della nostra esistenza. L’approccio di questo documentario è esistenziale, curioso e cinematografico. Attraverso le esperienze dirette dei suoi protagonisti in quattro nazioni emblematiche – Kuwait, Corea del Sud, Usa e Italia – After Work esplora cos’è oggi l’etica del lavoro e come potrebbe essere un’esistenza libera dal lavoro.

Il lavoro è un diritto ed ogni giusta Costituzione civile ne riconosce il beneficio, promuovendone le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Un assunto sì onorevole nella teoria, ma costantemente tradito nei fatti. Essendo concetto mutabile, nell’odierna contemporaneità in cui l’evoluzione tecnologica stabilisce e scompone, il lavoro ha dovuto tener conto dei mutamenti sociali, del persistere di un’aggiornata schiavitù e la proliferazione di sempre più umanizzati sostituti artificiali.
Partendo dall’appena citata asserzione e da quella maggiormente longeva dell’attività lavorativa come fondamento della propria identità, il documentario di Erik Gandini After Work si presenta come indagine dinamica, proponendo linee di ragionamento che scaturiscono dall’accostamento di storie personali e circostanze universali, dal quale emerge l’ormai indistinguibile legame tra vita e lavoro. Ad essere messi in correlazione, individui provenienti da luoghi ben distinti del mondo che qui assumono il ruolo di testimoni emblematici della specifica tendenza nazionale.
Ad aprire, uno zelante coreano ipnotizzato davanti uno schermo che clicca il mouse, divenuto prolungamento della sua stessa mano, attesta l’eccessivo accanimento lavorativo del Paese. Al suo fianco, la giovane figlia ne certifica l’ossessione normalizzata come unico modo in Corea per considerarsi felice, nonostante tale dedizione impedisca di vivere il “fuori”.
In netta contrapposizione, il ricco Kuwait, dove la sovrabbondanza di dipendenti che ricoprono la medesima posizione causa il non svolgere alcun incarico ed essere comunque ben retribuiti. Nessuna fatica certo, ma condannati a non avere alcuno scopo, giorno dopo giorno.
Cosa sia meglio e cosa sia peggio: questo è il quesito che affiora. In una società dove è il cosa fai a conferire specificità alla persona, il non essere attivo risulta più degradante ed insoddisfacente che lavorare senza tregua, accettando ritmi logoranti. Ci si sentirebbe vuoti a non fare nulla, seppur apparentemente liberati. Ed è la “deposizione” della fattorina americana di Amazon a darne riscontro: venire sorvegliati durante il turno, sottostare ad orari massacranti e a soffocanti limitazioni, ma sentirsi appagati nell’essere parte integrante del meccanismo.
A confronto, il quotidiano di due ereditieri italiani che hanno il privilegio di adoperarsi per occupare il tempo e non per dover sopravvivere. Posti a puntellare le varie testimonianze, gli interventi di alcuni esperti. Da quello filosofico del far risalire la moderna etica del lavoro al Calvinismo e probabilmente all’etimologia del termine labor (pena) a quello sociologico che descrive i cosiddetti “neet”, ovvero i giovani che non lavorano e non studiano (con un troppo riferirsi ai “bamboccioni” italiani più che agli altri).
Come tasselli di un puzzle, la narrazione prosegue su situazioni antitetiche e sfrutta quindi paradossali giustapposizioni affinché lo spettatore giunga a porsi domande. L’idea del reddito di base universale è legittimo? La produzione automatizzata andrà a soppiantare l’uomo? Ci sarà un futuro libero dal lavoro? Tanti, anzi troppi, sono gli interrogativi che Gandini lascia in sospeso e senza alcun appiglio di riflessione. (…)
Miriam Raccosta

Tristi tempi. Una volta i “mondo movie’ dragavano Sesso e Orrori per colpire sotto la cintura (nessun rimpianto, per carità). Oggi l’italo-svedese Erik Gandini, già autore fra l’altro di un film su Berlusconi e sugli effetti più nefasti delle sue tv, “Videocracy”, batte l’Italia e il Kuwait, gli Usa e la Corea del Sud, chiedendosi perché il mondo intero è ossessionato dal lavoro, in un senso o nell’altro, e se il futuro ci libererà da questa ossessione.
Inaugurando un’era in cui il lavoro non sarà più il perno economico, quando non interiore, delle nostre vite. Vasto progetto. Più che un docu ritmato e ribaldo, zeppo di esistenze e personaggi al limite, ci voleva forse una serie capace di approfondire, contraddire, collegare in un disegno ancora più sfaccettato i dati e le suggestioni che sfilano con palese malizia.
Perché in Corea del Sud il ministro del Lavoro è costretto a lanciare una campagna promozionale per convincere i cittadini a sgobbare meno?
Come mai gli Usa, monumento al calvinismo, bruciano ogni anno 578 milioni di giorni di ferie non godute, mentre nel Kuwait arricchito dal petrolio si usano 20 salariati per fare il lavoro di una persona e ogni famiglia ha in media due collaboratori domestici, naturalmente immigrati?
E. ancora: cosa penseranno del lavoro, e del reddito di cittadinanza, gli esponenti (italiani stavolta) degli strati più privilegiati?
Ovviamente il lavoro, come la ricchezza, è il luogo delle diseguaglianze più estreme. In ogni senso. C’è chi lo fa con passione e gratificazione (il 15 per cento degli individui secondo la Gallup) e chi lo vive passivamente o addirittura detesta e boicotta più o meno attivamente la propria occupazione (il restante 85 per cento, sempre dati Gallup).
Per non parlare di chi un lavoro, qualsiasi lavoro, se lo sogna.
Anche se Gandini, registrate velocemente parole e opinioni di alcuni grandi nomi (Yuval Noah Harari, Noam Chomsky, Elon Musk, Luca Ricolfi, Yanis Varoufakis), insinua un dubbio. Magari la religione del lavoro ha fatto il suo tempo. Forse il reddito universale (una necessità, sentenzia Elon Musk) ci libererà da questo fardello e potremo goderci il tempo libero.
Anche se Harari ammonisce: presto l’irrilevanza sarà peggio dello sfruttamento. Per non parlare di quei giovani gaudenti in spiaggia, non una gran pubblicità al nuovo mondo.
Così, più che le idee restano le immagini. La dipendente Amazon e le 5 videocamere nel furgone che monitorano ogni suo istante, l’inserviente (immigrato) che lustra il pavimento del centro commerciale a effetto acquario in Kuwait. L’italiano nato ricco anzi ricchissimo che cura e pota il suo giardino. Un labirinto, guarda un po’.
Fabio Ferzetti

Come sarà la vita nell’era del post-lavoro? Cioè: quando l’umanità avrà automatizzato così tanti processi da rendere inessenziale la prestazione lavorativa, l’uomo come impiegherà quel “tempo libero”? È pronto ad affrontare una routine in cui il tempo lavorativo sarà quanto meno ridimensionato? Sarà in grado di abituarsi e di conferirgli un valore per l’individuo e per la società? After Work cita come principale riferimento gli scritti del sociologo svedese Ronald Paulsen (inediti in Italia) e raccoglie le testimonianze di lavoratori molto diversi tra loro, in una ricognizione libera ed episodica tra Corea del Sud, Italia, Stati Uniti e Kuwait.
Ogni voce, anche la più inaspettata, contribuisce a riflettere sulle cause culturali e storiche dell’attaccamento al tempo del lavoro: un monte orario sottratto alla vita relazionale, stabilito dalla rivoluzione industriale e poi non più messo in discussione ma introiettato acriticamente nelle esistenze. Considerato inattaccabile, indiscutibile. A volte coincidente con la stessa ragione del vivere.
Una figlia coreana sottolinea quanto il padre abbia sacrificato la propria vita al lavoro, negandola a sé stesso e ai propri cari, identificandosi in esso. Un ereditiere italiano di villa storica con parco dichiara con orgoglio la scelta di occuparsi come giardiniere. Uno speaker e formatore statunitense per le aziende tiene lezioni per conto del Center for Work Ethic Development, evidenziando quanto nel suo Paese i lavoratori rinuncino alle ferie, differentemente dagli italiani. Una filosofa dell’Università del Michigan illustra la devozione al lavoro come una forma di dipendenza (performative workaholism) e individua nell’etica calvinista il senso di colpa ancor oggi provato rispetto al tempo non occupato. Una rappresentante del governo coreano indica le politiche messe in atto per persuadere i lavoratori a interrompersi a un certo orario.
Un manager di una società di sondaggi porta dei dati impietosi: i lavoratori emotivamente “connessi”, ossia motivati e coinvolti nella propria occupazione, sono il 15% del totale. Un’autista che fa le consegne con il furgone mette in luce le storture del controllo sui suoi tempi, operato dal noto colosso americano per cui lavora. Un dipendente del governo del ricchissimo Kuwait denuncia la frustrazione di percepire uno stipendio senza avere mansioni da svolgere, perché così è stato deciso per legge. Una coppia di benestanti italiani si confronta sull’idea di passione per la vita attiva anche dalla loro posizione di privilegio. Un giovane coreano è malato e infelice come i propri genitori, schiacciati dal “lavorare per vivere”.
L’ultimo film di Erik Gandini (noto da noi soprattutto per Videocracy – Basta apparire, il documentario del 2009 in cui fotografava un’Italia berlusconiana, edonista, appiattita sullo status symbol della fama mediatica) si apre con una citazione da Aristotele sugli spartani. Popolo che non sarebbe stato capace di mantenere il proprio governo, dopo la guerra, perché non abituato a una vita di “pace”. Cioè di ozio, di tempo libero, di non lavoro. Tempo che si potrebbe finalmente dedicare alla propria crescita intellettuale, alle relazioni, alla creatività. È il punto di partenza di un dibattito, innescato da proiezioni sul futuro prossimo degli occupati nell’era di ChatGPT e intelligenze artificiali: che sia realmente arrivato il momento storico di “demolire” il mito del tempo lavorativo, di prendere atto del suo declino e di elaborare strategie di cambiamento?
Raffaella Giancristofaro

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