Una riflessione sulla recente risoluzione del Parlamento Europeo che equipara i simboli del nazismo e del comunismo e sull’esumazione della salma del dittatore Francisco Franco
È di questi giorni la notizia che, dopo una lunga peripezia giudiziaria, la Corte Suprema spagnola ha dato l’ok definitivo alla esumazione della salma del dittatore Francisco Franco dal Mausoleo del Valle de los Caídos, dov’era stato sepolto alla sua morte, avvenuta nel 1975. Il Governo Sanchez ha osato fare ciò che nessuno mai si era azzardato a fare: battersi per l’esumazione. Non è concepibile che un paese democratico abbia la tomba di un dittatore in un luogo pubblico, che fa parte del patrimonio nazionale, ha detto più volte il primo ministro spagnolo (in carica ancora per poco).
Facciamo un passo indietro: nel 1940, ad un anno dalla fine della Guerra Civile (1936-1939), il dittatore Francisco Franco diede inizio alla costruzione di questo monumento che, nel suo pensiero, doveva essere un mausoleo per i caduti della “crociata”, come definiva lui la guerra civile. Al principio doveva ospitare solo i resti dei caduti falangisti, ma successivamente il dittatore cambiò idea e decise che avrebbe ospitato i resti di entrambe le parti e così molti resti di repubblicani ci furono portati d’ufficio. E carnefici e vittime furono costretti a condividere lo stesso luogo di sepoltura.
Il monumento fu finito nel 1958 e inaugurato nel 1959. Si trova nella valle di Cuelgamuros, nell’estremo sud della Sierra de Guadarrama ed è quasi equidistante da Madrid (58 km), Ávila (55 km) e Segovia (50 km). La sua altitudine varia dai 985 metri fino ai 1758 metri sulla cima del Monte Abantos. Alla sua costruzione lavorarono diversi prigionieri politici, ai quali era stato promesso uno sconto di pena, molti dei quali perirono a causa delle pessime condizioni di lavoro. Nonostante il dittatore volesse essere sepolto altrove, quando morì i suoi fedelissimi decisero di seppellirlo proprio lì, nella basilica a pochi passi dall’altare maggiore. E da allora il luogo è meta, ogni anno, di migliaia di turisti nostalgici e di curiosi. Insomma, un gran brutto pasticcio.
Nel 2007 il governo Zapatero ha varato la legge per la Memoria Storica, finalizzata ad aiutare le famiglie che soffrirono perdite durante la Guerra Civile a cercare e trovare le fosse comuni dove erano stati seppelliti molti fucilati, di cui ancora non si erano potuti recuperare i resti. Ma soprattutto, nell’articolo 16, la legge proponeva di fare del Valle de los Caídos, un luogo di solo culto, privo di simboli politici riconducenti al periodo della guerra civile. Peccato che il simbolo massimo, Franco, fosse lì. A quel punto ci vollero altri 10 anni affinché si modificasse la legge e si aggiungesse la clausola relativa alla esumazione del dittatore. Tutto era fissato per il 10 giugno 2019, ma l’opposizione della famiglia che chiedeva di trasferire la salma niente meno che nella cattedrale de La Almudena a Madrid, in pieno centro cittadino, contro la proposta del Governo di re-inumarlo al cimitero de El Pardo, dove si trova la tomba di sua moglie, passò la parola alla Corte Suprema. E pochi giorni fa la Corte ha decretato che la salma sia re-inumata al cimitero de El Pardo, come proposto dal governo, scrivendo, si spera, la parola fine a questa storia.
Ma il Valle de los Caídos, con la sua basilica e la sua maestosa croce, non è solo memoria dolorosa. Le famiglie di chi ci ha lavorato, a vario titolo, negli anni sessanta e settanta, erano alloggiate nelle vicinanze, in un villaggio di casette di legno, perso nei boschi, e alcuni ragazzi di allora lo ricordano come un incanto, un posto magico immerso nella natura selvaggia, il luogo in cui furono felici e spensierati. Ecco un piccolo resoconto tratto da alcune interviste:
“La valle di Cuelgamuros è una fitta foresta di pini, rocce, ruscelli e sentieri che scorrono in direzione di Madrid. A poco più di un chilometro dall’enorme croce, in discesa, c’è un insediamento semi-abbandonato: il Villaggio (Poblado), tre strade mimetizzate e protette dalle raffiche di vento e case a schiera di pietra, legno e ardesia dove hanno vissuto per decenni circa 50 famiglie governate da un sergente in pensione dalla Guardia Civile, noto come Don Juan. Un uomo che sembrava Franco, con un anello d’oro al dito, baffi e voce stentorea di comando. I residenti delle case del villaggio erano operatori del Patrimonio Nazionale e guardie civili responsabili della cura del più grande monumento della dittatura. Tre generazioni hanno vissuto lì in un regime di usufrutto. Oggi, solo 11 case sono abitate, due delle quali da guardie civili e il resto dai 30 lavoratori di stanza. Quel villaggio, costruito apposta per i lavoratori, aveva una scuola che la domenica era usata come chiesa, un’economia con prodotti di base e una mensa. In questo modo, le famiglie di diversa ideologia e origine, alcune collegate al regime, altre precedentemente impiegate durante le opere del mausoleo e altre giovani che avevano bisogno di un lavoro, sono riuscite a creare una comunità insolita in piena riserva ecologica.
Nando, Teresa, Yoli, Edu, Ángel, Carlos, Javier, Mari Luz, Alicia, decine di bambini che non hanno lasciato quel micromondo fino alla fine delle scuole superiori. Ecco i loro ricordi:
“Quando la scuola era finita, ci mettevamo il costume da bagno e non lo toglievamo fino alla fine dell’estate. Abbiamo trascorso le nostre vite in strada e in montagna. Era come in Heidi”. Alicia ha ora 50 anni e ricorda:“Fino ad una certa età, era bellissimo. Una bolla. Quando però arrivava l’adolescenza, ti mancavano le cose, pensavi di non avere gli stessi servizi di quelli che vivevano nei paesi circostanti, non potevi uscire nei fine settimana perché le porte ad una certa ora si chiudevano e dovevi dormire a casa di amici. Solo quando abbiamo iniziato a frequentare la scuola superiore, abbiamo iniziato a realizzare davvero dove stavamo vivendo. Molti di noi si sono ribellati. Un 20 novembre, anniversario della morte di Franco, quando i falangisti accesero le torce, cantammo l’internazionale sull’autobus che ci portava al liceo. Scoppiò un putiferio, ma nessuno pensò che fossimo stati proprio noi ”.
Tra i lavoratori del sito c’era anche un prigioniero repubblicano che dopo la costruzione rimase nel villaggio. “Non ho mai detto di vivere nel villaggio del Valle, non per la vergogna, ma perché non volevo spiegare che mio padre lavorava su quella benedetta croce”, afferma Teresa. All’età di 17 anni lasciò il paese e divenne un’attivista per la gioventù socialista: “Ho rinnegato quel posto. Ma più tardi ho dovuto rivalutare quell’infanzia privilegiata in cui si era felici con pochissimo”.
Quando arrivava il momento di andare al liceo a Guadarrama, Villalba o El Escorial, noi eravamo quelli strani:”stanno arrivando quelli del Villaggio” dicevano. Per noi era normale arrampicarsi in infradito, sapevamo tutti come lanciare pietre, conoscevamo molto bene gli animali della zona, ci facevamo tatuaggi con le foglie affilate dei pini”.
“La nostra più grande speranza era che nevicasse, perché quel giorno lo scuolabus non ci veniva a prendere e rimanevamo a casa”, dice Eduardo. Angel ride:”La cosa incredibile è che siamo sopravvissuti. Non permetterei ai miei figli di fare quella vita adesso, nemmeno per sogno. Abbiamo scalato alberi e rocce da cui era quasi impossibile scendere, abbiamo costruito liane tra i pini e fatto guerre di pigne ferocissime. Quella vita però ci ha insegnato ad essere autosufficienti. I nostri genitori lavoravano lì, ma nessuno si dedicava all’indottrinamento”. Anche Yolanda è cresciuta al Villaggio, suo padre era un ciclista professionista. Per lei la croce era sempre presente: “Era un riferimento per tutti i più piccoli. Se ti perdi nella foresta, fatti guidare dalla croce, ci dicevano gli anziani. Era come un lecca-lecca, stava lì, e basta”
“Eravamo ossessionati dagli insetti, dagli uccelli. Ci svegliavamo presto e trascorrevamo l’intera giornata in montagna. Controllavamo i nidi di aquile reali, falchi, poiane e persino aquile imperiali. Osservavamo come venivano svezzati i piccoli, documentavamo tutto. Una volta abbiamo preso la rete metallica di un letto e l’abbiamo issata su un albero per avere una base di osservazione”, dice Angel.
Nessuna donna del villaggio aveva la patente di guida. La maggior parte aveva tre o quattro figli. E non c’erano segreti. Nei cortili si sentiva tutto.
Mentre i mariti lavoravano, le donne cucivano per strada, sedute una di fronte all’altra, su sedie o sul gradino della porta. “Se tua madre non c’era, non rimavi senza pranzo. Si aiutavano vicenda, era come una comune. Penso che sia giusto portare Franco fuori di lì, ma il Villaggio dovrebbe essere riabilitato e trasformato in un centro per lo studio della natura”, afferma Teresa.
Come erano i rapporti coi i monaci dell’abbazia? Eduardo racconta: “I frati ci vedevano di buon occhio, volevano che andassimo sempre a messa. Padre Joaquin ricordava il compleanno di ogni bambino e il giorno stabilito scendeva con il motorino, senza casco, per fare gli auguri. A volte coglieva l’occasione per sedersi in mensa e fumare un sigaro”. “I benedettini avevano un discreto campo da calcio e una bella piscina.Ci sono state notti estive in cui siamo andati al monastero, abbiamo saltato la recinzione e abbiamo fatto il bagno. Più di una volta abbiamo dovuto scappare di corsa “, afferma Eduardo. Suo padre era un elettricista.
“Non posso dire niente di negativo sul Valle. La mia essenza ha a che fare con quel posto. Pur essendo di sinistra e sapendo che ci sono molte persone che soffrono nel vederlo, è la mia casa”, spiega Teresa.
Per tutti questi ragazzi e ragazze, oggi adulti, quel luogo era ciò che è sempre stato, fin da prima che Franco ci facesse costruire quel mausoleo, cioè un’isola ecologica, un parco naturale incontaminato in cui vivere appieno ciò che la natura offre. E forse è questo che deve tornare ad essere, quando finalmente la salma del dittatore verrà esumata e portata lontano, in un luogo neutro.
In questo periodo si parla di offesa della memoria, dopo la controversa risoluzione del parlamento europeo che equipara i simboli del nazismo e del comunismo, ma la memoria e la storia sono due cose molto distinte, come ci ricorda in un video che circola sui social lo storico, professor Barbero, e come dimostra la storia della valle di Cuelgamuros.
La storia condanna quel luogo e ciò che ha rappresentato, tanto che qualcuno aveva addirittura proposto di distruggerlo, ma chi ci è nato e cresciuto lo ha vissuto in maniera assai diversa e ne offre quindi una memoria differente. Operazioni come quella del parlamento europeo non fanno altro che generare maggiore confusione rispetto a vicende che hanno già avuto un evidente corso storico, e soprattutto si intromettono in un campo che non può e non potrà mai essere oggettivo: quello della memoria. Cercare di adattare la storia del passato ad istanze attuali non aiuta né la memoria, né la storia.
Lisa Gino