Leggendo La Fenice…
Carcere, prigione, galera, penitenziario, casa circondariale sono i sinonimi con cui definiamo il luogo in cui si detiene chi viene privato della libertà. L’ultimo citato è quello che forse più si attiene ai dettami del linguaggio politicamente corretto, un eufemismo che non alleggerisce la ruvida realtà muraria di un edificio per detenuti. Il carcere di Ivrea è un blocco cementizio nell’area est della città, i muri a mattonelle di un rosso sbiadito, le finestre delle celle con le inferiate che ricordano il disegno di un alveare. A connotarne immancabilmente la fisionomia, il perimetro del cortile esterno è una palizzata di ferro alta almeno 4 metri. Il colore della palizzata è di un celeste stinto, ulcerato e sicuramente bisognoso di una ritinteggiatura.
Un giorno di parecchi anni fa, ero proprio davanti al carcere e ne osservavo una parete oscurata da una grande ombra dai profili irregolari. D’un tratto, da una finestrina dell’ultimo piano, era comparso un braccio che si agitava nel gesto di un saluto. Mi ero prontamente girato come a cercare il destinatario di quel gesto ma sulla strada c’ero solo io, io che non avevo il coraggio di ricambiare e quindi di riconoscere quel saluto. Perché? Forse per la stessa ragione per cui, di norma, si preferisce evitare di entrare in contatto con la realtà difficile della detenzione così come di ogni altra realtà che concerna il lato amaro della vita.
Di quel saluto non corrisposto mi sono sempre vergognato ma, ciononostante, la mia visione del carcere è rimasta, prevalentemente, di tipo cinematografico. Film come “Fuga di mezzanotte”, “Papillon”, “Fuga da Alcatraz” mi hanno condizionato ad una visione ingenuamente romantica dove i reclusi erano più che altro personaggi condannati ingiustamente o, comunque, rei di colpe non gravi, dotati di alto quoziente intellettivo e capaci di progettare clamorose evasioni grazie a un inaudito coraggio e a uno sconfinato amore per la libertà. A questa visione faceva parzialmente riscontro quella più realistica dove, senza chiedermi altro, il carcere era luogo di segregazione coatta per chi, macchiatosi di gravi misfatti, doveva scontare una pena e una separazione dal contesto sociale finalizzata ad impedire la reiterazione dei reati stessi.
Il mio livello di consapevolezza è rimasto più o meno quello fino alle risultanze dell’oggi dove, causa il corona virus, e la lodevole iniziativa che ha portato alla creazione de “La Fenice”, questo giornale “on line” scritto dai detenuti di Ivrea, qualcosa sta rendendo meno approssimative le mie considerazioni.
Innanzitutto il virus ha, in qualche misura, ridotto le distanze tra il dentro e il fuori dal carcere, ovviamente non aumentando la libertà dei detenuti, ma diminuendo quella dei liberi cittadini.
Il blocco delle uscite di casa ha fatto sperimentare, a chi non ne aveva la più pallida idea, cosa significhi una, seppur temporanea, privazione delle libertà fondamentali. Questa limitazione mi ha permesso di guardare oltre il muro in maniera diversa. Sono andato a vedermi le foto degli interni di una cella dove spesso sono racchiusi due o più individui. Spazi ristrettissimi con letti a castello e aree di movimento così esigue da veicolare immediatamente una sensazione di panico e claustrofobia.
Inoltre, mi sono letto tutti i pezzi della Fenice trovandovi l’eco di problematiche durissime che possono più facilmente indirizzare le persone verso la rabbia e il risentimento che non verso un percorso di ricupero utile al reinserimento sociale. In pratica ho capito meglio che perdere la libertà significa soprattutto affrontare le conseguenze che questa perdita comporta come le frustrazioni, il rischio della violenza contro gli altri e contro se stessi, le derive psicologiche e altro. Carceri sovraffollate, contatti difficili con i parenti, conflittualità interne, assenza di speranza soprattutto tra chi è condannato all’ergastolo.
Mi sono anche accorto di come La Fenice offra sì ai detenuti un’occasione per valicare il muro dell’indifferenza tra il dentro e il fuori dal carcere, ma anche a noi permetta di renderci meglio conto di come sia la vita dietro le sbarre.
Il senso di riduzione della distanza l’ho avvertito soprattutto quando, nelle varie lettere pubblicate, ho ritrovato quel filo di umanità che ci caratterizza tutti indipendentemente dagli errori che commettiamo.
Per esempio ho apprezzato particolarmente la storia di Tommaso e della sua fedele cagnetta di nome Laika che lui ha dovuto lasciare rientrando in carcere. Le parole che usa Tommaso, per ricordare questa sua amica a quattro zampe, sono semplici e commoventi dando vita a un immaginario in cui ci si può riconoscere collettivamente. Sono sicuro che tutto questo affetto non andrà perduto e che aiuterà Tommaso sulla strada del ritorno alla libertà.
Uno dei miei scrittori preferiti Charles Bukowski diceva che le università della vita sono tre: “la strada, il carcere e gli ospedali”. Penso che il vecchio “Hank” sapesse il fatto suo e avesse ragione. Anche Jack London ha scritto un bellissimo libro sull’esperienza del carcere, un libro che si intitola “Il vagabondo delle stelle” e che dovrei sicuramente rileggere.
Di un altro grande scrittore, che è Dostoevskij, “La Fenice” riprende, a suggello, un aforisma che dice: “Il grado di civiltà di una società si misura dalle condizioni delle sue carceri”.
E’ una frase che suona anche come un auspicio per il futuro inteso come evolutivo a sfavore della criminalità. Si tratta di un’utopia? Forse sì, ma l’uomo ha grandi potenzialità nella possibilità di migliorare se stesso.
Per quel che mi riguarda confesso di nutrire ancora molti pregiudizi verso una realtà carceraria che, comunque, non conosco e sulla quale occorrerebbe interrogarsi a lungo. Abbandonare la lente dei pregiudizi non mi sembra così facile come in tanti predicano. I pregiudizi si superano attraverso un lavoro di riflessione, informazioni più corrette, nuova consapevolezza.
Leggendo La Fenice posso però dire di avere, per esempio, constatato come siano scritti bene gli articoli. La cura dedicata alla forma espressiva è una risposta al pregiudizio che il detenuto sia “ineluttabilmente” consegnato al degrado da cui forse, nella maggior parte dei casi, proviene.
Se lo desidera, invece, anche il detenuto può creare bellezza, mettersi al servizio delle parole per imparare, attraverso di esse, un nuovo cammino. A volte ai carcerati possono riuscire cose che le persone libere non prendono nemmeno in considerazione.
Non è molto, ma se mi fermerò ancora di fronte al carcere di Ivrea e una mano mi saluterà, adesso so di per certo che ricambierò il saluto. Un gesto che non solo servirà a riconoscere la presenza dell’altro ma anche nel ricordare a me stesso che sbagliare e finire “dentro” forse è più facile di quanto, normalmente, si immagini qui “fuori”.
Quelli che sporgono le mani da una finestra, rettangolo di cielo, nella parete in ombra di un carcere, probabilmente cercano anche una nuova possibilità di riscatto sociale, perseguono un’idea di salvezza a cui non dobbiamo essere indifferenti.
Pierangelo Scala