Il presidente del consiglio Gentiloni ha firmato un procollo d’intesa con i principali committenti di servizi di call center per frenare le delocalizzazioni. L’operazione è più di facciata che di sostanza e i veri problemi del settore non vengono affrontati
Il 4 maggio si è svolta a Palazzo Chigi la cerimonia di firma del Protocollo d’intesa sui Call Center, con il presidente del consiglio Gentiloni, il ministro dello sviluppo economico Calenda e i manager delle principali aziende che utilizzano call center per l’assistenza e la vendita di prodotti: Eni, Enel, Sky, Tim, Intesa San Paolo, Fastweb, Poste, Trenitalia, Ntv, Unicredit, Wind3, Mediaset e Vodafone. Già la parola usata nella comunicazione del Governo per indicare il fatto, “cerimonia”, la dice lunga sul sottotesto di quell’evento, una “buona azione” pubblica senza vincoli di legge, insomma una promessa del tipo di quelle che i bambini fanno all’inizio dell’anno: “prometto che farò il buono e non farò arrabbiare mamma e papà”.
Ma cosa prevede il protocollo d’intesa?
Una parte dell’intesa riguarda i clienti: le aziende si impegnano ad assicurare il più alto livello qualitativo nel servizio di contact center garantendo chiarezza, semplicità e correttezza delle informazioni fornite, la certificazione linguistica per gli operatori fuori dall’Italia, tempi di risposta definiti, il rispetto della normativa sulla privacy, il rispetto delle fasce orarie per le chiamate verso i clienti.
Gli altri punti toccano invece i rapporti di lavoro. Il punto principale è l’impegno preso dalle aziende sottoscriventi a garantire che il 95% delle attività di call center realizzate direttamente dalle aziende stesse siano effettuate in Italia, ugualmente l’80% dei nuovi contratti di servizi di call center affidati ad aziende esterne deve essere svolto nel nostro paese. Vi è poi un impegno a “prevedere strumenti di tutela analoghi a quelli previsti dalla norma in relazione alla clausola sociale o, alternativamente, valorizzare l’impegno dei fornitori di garantire l’applicazione di strumenti di tutela dei lavoratori analoghi a quelli previsti dalla norma”. Si parla infine di “sterilizzazione” del costo del lavoro, cioè di escludere le offerte di fornitori con costo orario inferiore a quello delle tabelle del ministero del lavoro, o di accordi “con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative” o in mancanza in base ai contratti collettivi nazionali.
La vita reale
E’ facile prevedere cosa accadrà in queste aziende: verranno ridotte, se non cancellate, le quote di servizi di call center svolti all’interno e per contro incrementati i volumi dei contratti in essere con aziende esterne. In questo modo si potranno eludere entrambe le percentuali perché il 95% riguarda le attività dirette che andranno a diminuire e l’80% riguarda solo i nuovi contratti e non l’aumento di volume di contratti esistenti. Oppure, e si hanno notizie che stia già accadendo, verranno riportate nel paese alcune attività di call center per delocalizzare i cosiddetti “back office”, cioè tutto il lavoro d’ufficio amministrativo.
Sulla clausola sociale di fatto si declamano solo grandi intenti, senza alcuna sostanza e sulla sterilizzazione del costo del lavoro, sono così tante le opzioni sulle retribuzioni che non abbiamo dubbi (o quasi…) che gli operatori saranno pagati secondo uno dei suddetti accordi o termini di legge, ma da qui a dire che si tratti di giusta retribuzione ce ne passa!
A conferma che si tratti solo di buone intenzioni di facciata il fatto di non essere davanti a una seria proposta di legge per invertire la tendenza sia sul tema delocalizzazioni sia per il miglioramento delle condizioni lavorative degli operatori, ma solo appunto a un’intesa anche di breve durata, solo 18 mesi, anche se tacitamente rinnovabili, con la prima verifica fra un anno. Cioè tutto dopo le elezioni politiche …
Perché tanto scettiscimo? Solo gusto di dar contro a ogni azione governativa? No, piuttosto un’attitudine a guardare fra le righe, andare oltre gli annunci, avere sempre sani dubbi … “non abbi dubbi solo sul rock & roll” diceva il poeta.
A Ivrea sono presenti alcuni dei principali operatori telefonici (Vodafone, Wind, Telecom) e una delle maggiori aziende di servizi di Call Center (Comdata), il tema quindi tocca molto da vicino il nostro territorio. In queste realtà, relativamente ai servizi di call center, i principali problemi riguardano le condizioni di lavoro dipendenti e l’alto ricorso ai contratti di somministrazione “selvaggia”. Sono centinaia gli interinali che vengono attivati come macchine a gettoni, chiamati a lavorare qualche ora al mattino e poi forse anche nel pomeriggio, “vediamo, dipende dalle chiamate”. Ma meglio non va ai dipendenti, ultimamente ancora più pressati da orari variabili di giorno in giorno, formazione carente, pressioni psicologiche.
Questi sono i veri problemi del settore: condizioni di lavoro più da “schiavi moderni”, che da lavoratori del terzo millennio, committenti (tutte le aziende firmatarie del protocollo) che la fanno da padroni con offerte che cambiano quasi di giorno in giorno senza dare il tempo agli operatori di formarsi e richieste sempre più pressanti su costi e quantità di chiamate.
Questi sono i nuovi operai sfruttati, altro che i commercianti come asserisce la presidente del consiglio comunale di Ivrea nel suo intervento all’assemblea nazionale del suo partito. Per questa categoria di nuovi cottimisti, che pure conta tra diretti e indiretti quasi duemila persone a Ivrea, neanche una parola. Evidentemente questi lavoratori sono decisamente “fuori target” per il partito al governo.
Cadigia Perini
(*) Immagine messa a disposizione con licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT