Democrazia, Europa, formazione del ceto politico, sfida ambientale i temi affrontati dal filosofo veneziano in un partecipatissimo incontro il 13 marzo presso il Polo Universitario di Ivrea. Con i pregi della chiarezza (senza sconti) e il limite dell’assenza di un “orizzonte altro”.
C’è il pubblico delle grandi occasioni, dentro e fuori l’aula grande del Polo Universitario di Ivrea, la sera del 13 marzo ad ascoltare la lezione del prof. Massimo Cacciari, invitato dal Forum Democratico del Canavese e dal Movimento Federalista Europeo, sulla crisi della democrazia rappresentativa in Europa.
Introdotto da una riflessione di Claudio Cuccurullo (caporedattore della Sentinella) sullo svuotamento degli organismi intermedi di rappresentanza, Cacciari parte da «cosa si intende oggi con la parola “democrazia”? Un termine vago che si riduce al voto». E si riduce ulteriormente «a un rapporto tra popolo e capo se non ci sono organismi intermedi che creano, appunto, un rapporto mediato. E’ necessaria la mediazione? – chiede Cacciari – Sono necessari i partiti e i sindacati (nel senso ampio di associazioni a tutela di interessi di parti sociali)? Oppure “ognuno vale per sé” e direttamente sceglie?». Sono evidentemente domande retoriche alle quali subito aggiunge che «il popolo non è un’entità reale perché è fatto di interessi diversi, è fatto di “parti”, da qui il termine “partito” sin dai tempi dell’antica repubblica romana. Che il popolo si esprima con un click o con un voto non cambia nulla, ciò che fa la differenza per la democrazia è se c’è mediazione oppure no, se c’è un’autonoma espressione della società che, inevitabilmente, sarà “di parte”».
A sgombrare il campo da equivoci, il professore chiarisce subito che «sovranisti e populisti sono l’effetto, non la causa» della mancanza di “mediazione” e, quindi, di reale partecipazione democratica ai processi decisionali, «in tutte le democrazie occidentali i partiti hanno svolto questa funzione nel secondo dopoguerra, ma negli ultimi 25-30 anni non hanno rappresentato “le parti” e fatto mediazione», hanno più che altro occupato tutte le sedi istituzionali e «seguito passivamente i cambiamenti epocali, con il neoliberismo che metteva le “leggi dell’economia” davanti a tutto, presentandole quasi come “leggi fisiche”, come quella di gravità. E l’Europa, cresciuta in questa egemonia del pensiero liberista, è stata una risposta al bisogno di uno spazio comune economico e commerciale minimamente adeguato a competere in un mondo in cui India (che viaggia con tassi di sviluppo annuo del 6%), Cina e Russia rappresentano metà della popolazione del pianeta. Un vizio culturale, perché l’Europa sarebbe dovuta crescere a partire dal sociale. Si è pensato di partire dalla moneta unica e poi il resto sarebbe seguito, ma così non è stato, anzi ha reso la nascita di un reale spazio comune ancora più difficile. Ora però o si rilancia la sovranità europea o per reazione si ritornerà alla sovranità nazionale». Un suicidio, sostiene il professore «in un’epoca in cui c’è un “grande impero anonimo” e grandi potenze che acquisiscono il mondo, mentre il debito degli USA passa dai diecimila miliardi del 2007 agli attuali ventimila, mentre il budget militare cinese è cresciuto in dieci anni di dieci volte e quello russo di quattro».
Ma, se la UE è necessaria perché è appena sufficiente come spazio comune (il PIL complessivo di tutti gli stati membri è oggi il 12% di quello globale), è altrettanto necessaria, per Cacciari, una riforma radicale delle istituzioni europee, cominciando dal renderne visibile la filiera di comando. Perciò non ha senso la distinzione «europeisti contro populisti, perché occorre dire – aggiunge il professore – qual è la nuova Europa che si vuole. E ci vorrebbe un”Europa federale che abbia al centro solidarietà e sussidiarietà, che tenga conto delle differenze (perché non ci possono essere regole uguali tra obesi e anoressici), nel cui Consiglio non sia necessaria l’unanimità del voto di tutti gli stati, il cui cuore sia il Mediterraneo (è oggi ridicolo avere come riferimento l’impero Franco Carolingio). L’alternativa è l’assenza dell’Europa sul piano mondiale e lo scannarsi tra un paese e l’altro per attrarre grandi capitali e investimenti». Come peraltro già accade da tempo.
Per convincere della necessità di questa scelta, nonostante gli innumerevoli esempi di incapacità della UE di andare in questa direzione, Cacciari se la cava con una battuta: «il percorso è incidentato, certo, ma è come se dicessi che, siccome a Ivrea ho avuto un incidente, a Ivrea non ci vado più. Gli incidenti non mettono in discussione il fatto che è lì che si vuole arrivare».
In risposta a una domanda di Cuccurullo sull’opportunità, dopo aver verificato gli effetti negativi del “rigorismo”, di provare con politiche economiche espansive, il professore rileva che quando si è in presenza di disoccupazione al 10-15% e crolla il potere d’acquisto delle classi intermedie, diventano indispensabili politiche espansive e «non rispondi con la “stabilità” a chi è disoccupato o muore di fame». Così sulle “competenze” del personale politico attuale, Cacciari è lapidario sostenendo che la formazione del ceto politico avviene solo attraverso l’esperienza negli organismi intermedi di rappresentanza sociale, «avveniva in questo modo e non attraverso le scuole di partito. Non c’è poi differenza oggi tra la “selezione” del personale politico attraverso un click o nella corte di portaborse e ruffiani».
Sollecitato da una domanda rivolta dal pubblico, anche la sfida ambientale, secondo Cacciari, «è possibile affrontarla solo se si ha una forza e una dimensione consistente, mentre gli staterelli non ce la farebbero. Oggi, nel disordine globale, è evidente che i grandi imperi non hanno una priorità ambientale, ma costruire un ordine internazionale è compito proprio dell’Europa».
Ma cosa si può prevedere se prevarranno le tendenze disgreganti in atto (che Cacciari imputa proprio alla “assenza di Europa”) e se permarrà il delirio neoliberista? Allora «sarà una “autocrazia post-democratica” nella quale ceto politico e potere economico saranno indistinguibili», è la fosca previsione con la quale Cacciari si congeda dall’incontro eporediese.
Incontro che ha sostanzialmente risposto allo scopo che gli organizzatori si erano proposti (“discutere i contenuti programmatici delle forze europeiste per riformare le istituzioni europee e farne un centro credibile e rassicurante di governo democratico”), anche se le proposte e i ragionamenti sviluppati da Cacciari mostrano una debolezza, peraltro frequente: manca del tutto l’individuazione delle “gambe” (sociali, politiche, economiche) sulle quali dovrebbero marciare. Quasi che le idee e le proposte, per il solo fatto di essere ragionevoli siano destinate ad affermarsi, quando è del tutto evidente che così non è mai. A meno che si ritenga che le “gambe” su cui potrebbero marciare le proposte per una “Nuova Europa” siano quelle di un produttivismo reiterato fino all’ossessione, che si esprime oggi negli strilli per le grandi opere (e i grandi affari, TAV in testa) e arriva a diventare tema centrale della campagna elettorale del PD nazionale (e certamente in Piemonte).
Forse la franchezza che connota da sempre l’eloquio di Cacciari (in particolare sui danni provocati dall’egemonia culturale del neoliberismo e sulla selezione del ceto politico) può aver momentaneamente infastidito i più vicini al PD, ma non ha messo in alcun momento in discussione “l’ordine naturale delle cose”, cioè il sistema capitalista che, giunto alla sua fase estrema, ha mostrato e mostra ogni giorno di più la sua incompatibilità con la sopravvivenza dell’umanità e del pianeta.
Tra l’utopia di chi pensa a “un altro mondo possibile” e quella, che si presenta più ragionevole e modesta, di una nuova Unione Europea in grado “di costruire un ordine internazionale”, alla fine appare più credibile la prima. Quanto meno perché, lo hanno gridato milioni di studenti in tutto il pianeta pochi giorni fa, un altro mondo “è necessario”, e non solo possibile. E certamente anche un’altra Europa sarebbe auspicabile, se andasse nella stessa direzione (non, come pare dalla passione per le “grandi opere”, in quella esattamente contraria).
ƒz