Un breve excursus sulle banane, il modo in cui vengono coltivate e i rischi che corrono. Dalla rubrica CONTRONATURA, dedicato a tutti gli appassionati di questo frutto tropicale
La banana è il mio frutto preferito, non certo a chilometri zero, ma che ci posso fare: mi piace! Oltre ad essere buone, le banane sono anche comode da trasportare nello zaino in montagna o in bicicletta, forniscono un buon apporto di carboidrati, vitamine e sali minerali, oltre all’acqua, consentendo un gustoso interludio alla fatica. Un po’ di storia. La diffusione del banano avvenne nell’Asia sud-orientale in epoca preistorica; pare che fosse già coltivato nel 5000 a. C. sugli altopiani della Papua Nuova Guinea. La sua espansione mondiale iniziò con i mercanti arabi in tutta l’Africa e proseguì con i coloni portoghesi che nel XVI secolo iniziarono ad impiantarlo nei Caraibi e America Centrale. Delle numerosissime varietà naturali, nei nostri supermercati si trova un’unica banana, la cosiddetta Cavendish, da William George Spencer Cavendish, aristocratico inglese appassionato di botanica che propagò per la prima volta questa cultivar nel 1834. La varietà si presta bene a coltivazione e trasporto, ma si tratta di un clone, ossia, la pianta è sterile e ogni individuo deriva dal rizoma di un altro, le banane coltivate (ci avrete fatto caso) non contengono semi quindi non si possono riprodurre, ma possono essere solo propagate vegetativamente. Questo è un problema: perché tutte le piante hanno lo stesso sistema immunitario, quindi un’unica malattia infettiva può mettere a rischio tutte le piante. E il rischio c’è: si chiama malattia di Panama ed è dovuta a un fungo che attacca le radici delle piante. Negli anni Cinquanta sterminò la varietà nota come Gros Michel o Big Mike, all’epoca la più diffusa. Proprio in seguito a quell’epidemia, i coltivatori cominciarono a ricorrere alla varietà Cavendish, che si era rivelata immune al parassita. Il fungo, però, è mutato ora attacca la Cavendish e partendo dall’Asia si è diffuso in Africa e Europa, non ancora in America Latina.
Non esiste al momento un modo per arrestare la malattia di Panama, ma oggi esistono metodi di modificazione precisa del DNA tramite cui rendere la pianta resistente oppure si dovrà fare come negli anni cinquanta: trovare una nuova varietà di banana, tra le centinaia ancora presenti in Asia, resistente alla malattia. Una cosa è certa. Per la banana del futuro, il miglior meccanismo di difesa sarà lo stesso su cui si basa la maggior parte della frutta e della verdura in commercio: la diversità genetica. Già ora, in molti supermercati americani si possono trovare banane rosse o verdi, banane non più grandi di un dito, e il platano, parente della Cavendish. Nessuna varietà, al momento, è in grado di rimpiazzare del tutto la Cavendish. Ma in Italia produciamo banane! In Sicilia, nelle campagne di Palermo, l’azienda “Valle dell’Oreto” ha iniziato otto anni fa una coltivazione che oggi conta mille alberi e produce 80 quintali di banane l’anno riservate al consumo in Sicilia; l’obiettivo è, però, di espanderla, per arrivare in un paio d’anni a esportare in tutta Italia. Dettaglio importante: non sono della cultivar Cavendish. Il banano ha bisogno di un clima tropicale, e qui beneficia del caldo umido, subtropicale, che si crea nella vallata e considerando l’evoluzione climatica terrestre la Sicilia potrebbe diventare una regione grande produttrice di banane. Quindi il riscaldamento globale è utile! (visione miope di bananivoro). La lezione da trarre è che le produzioni da cultivar clonate è molto rischiosa. La standardizzazione del mercato sta facendo scomparire molte varietà naturali anche di altri frutti, penso a mele e pere: per fortuna qualche coltivatore lungimirante le sta recuperando. Ma con le banane sarà difficile, il mercato è dominato da potenti multinazionali, Chiquita, Dole e del Monte sono le tre più grandi, che hanno interesse solo al profitto. Non mi resta che ringraziare il previdente produttore siciliano se un giorno non avrò crisi di astinenza.
Diego Marra