L’intervento della presidente del Consiglio Comunale di Ivrea all’Assemblea Nazionale del PD rivela l’autentico volto che si cela dietro l’idea progressista e aiuta a far luce sulla trasformazione del Partito Democratico
Il 7 maggio si è tenuta a Roma l’Assemblea Nazionale del Partito Democratico. Due gli eporediesi eletti: Enrico Capirone, attuale vicesindaco d’Ivrea e sostenitore della candidatura di Orlando ed Elisabetta Ballurio, presidente del Consiglio Comunale e sostenitrice di Renzi.
Le primarie del PD hanno messo in evidenza la debolezza, per lo meno a livello di sostegno elettorale, del gruppo dirigente d’Ivrea, uscito “sfiduciato” da circa tre quarti degli elettori democratici e in questo gioco di pesi e contrappesi c’è chi, tra i renziani locali, cerca di inserirsi; magari non per creare scompiglio o per mettere in difficoltà la governance (termine caro ai renziani) eporediese, ma per provare a maturare un percorso in grado di dare sotto elezioni dei frutti.
È probabile che con questo spirito Ballurio abbia deciso di intervenire all’Assemblea del PD. Le parole che ha pronunciato meritano attenzione in quanto riflettono l’avvenuta trasformazione del partito democratico da partito di centro sinistra a partito progressista, una parola pigliatutto necessaria per distinguersi dal passato, per non dover cadere nel ritornello (abusato in ogni dove) del “né di destra né di sinistra” e per poter prendere le distanze da una connotazione più di sinistra.
Un breve estratto del suo intervento lo conferma:
«Tanta della nostra gente non ha, o non ha più, un padrone; e che tantissimi nostri iscritti, amici, non hanno un padrone perché il lavoro è cambiato antropologicamente, non soltanto per errori della politica. […] Quanti commercianti hanno un lavoro autonomo e hanno dovuto scegliere di avere un lavoro autonomo perché non trovavano più un lavoro da dipendente. Quanti di loro pagano e non sono evasori fiscali; quanti arrivano alla fine del mese e sono gli operai nuovi di questa società. Noi vogliamo lasciarli, come li abbiamo lasciati una volta alla Lega Nord e oggi magari al Movimento 5 Stelle? Immagino di no.»
In poche parole, ciò che Ballurio suggerisce è far sì che il Partito Democratico possa rappresentare anche i piccoli commercianti, visti come i “nuovi operai senza padroni”, figli di una trasformazione antropologica del mondo del lavoro. Elisabetta Ballurio rimane dunque paladina dei negozianti eporediesi dopo la sua esperienza di assessora al commercio e il conseguente riconoscimento e successo elettorare alle ultime amministrative.
Che le sue parole siano indirizzate al territorio eporediese è fuori discussione. La fine delle grandi aziende ha indubbiamente significato un proliferare di piccole e medie imprese. Viene da domandarsi: sarebbe potuto essere diversamente? Difficile dirlo, ma la tendenza globale a delocalizzare grandi manifatture nei paesi a minor costo ha, di fatto, obbligato chi ha perso il lavoro a “inventarsi” una professione. In questo Ballurio ha ragione, ma è la lettura “antropologica” che non si presta al ragionamento.
Dalle sue parole sembra quasi che la frammentazione del mondo del lavoro e la sua conseguente atomizzazione siano un processo naturale, consolidato. Non ci sono responsabilità: è il mondo che gira così, l’economia che detta le leggi, noi possiamo solo adeguarci a questo gigante senza testa né corpo. Secondo questo ragionamento, naturale è stata l’abolizione dell’articolo 18, un freno verso il progresso nel quale oggi sguazziamo e del quale ci beiamo; e altrettanto naturale la liberalizzazione dei voucher. Se un partito sceglie di assecondare l’idea che o si diventa tutti imprenditori di sè stessi o non c’è alternativa, questo ha poco a che vedere con un processo naturale: è una responsabilità, significa aver preso parte e agevolato una trasformazione e non volerlo ammettere.
Eppure, volenti o nolenti, il territorio canavesano sembra pressoché quello dipinto da Ballurio: un luogo nel quale chi è disoccupato o inoccupato fatica a trovare un impiego dipendente stabile e, per questo motivo, si butta nel mondo del commercio. Ovviamente sarebbe sbagliato fare di tutta l’erba un fascio: c’è chi prende questa strada, ma c’è anche chi decide di emigrare o chi preferisce insistere e sarebbe interessante sapere che percentuale di persone prende la strada del commercio. Sicura della sua tesi, Ballurio potrebbe cercare di spiegare meglio le basi del suo ragionamento e renderci partecipi di queste informazioni.
«I nuovi operai senza padroni», vengono definiti. Ma a guardare i dati dell’estate scorsa relativi alle statistiche della Zona Omogenea Eporediese (ZOE) la realtà si presenta sotto un’altra forma: il settore del commercio conta 2.300 unità e circa 5.800 addetti, ovvero almeno 2,5 persone per ogni attività. Si presume, quindi, che almeno una parte dei commercianti, oltre che essere lavoratori, sia anche padrone. Inoltre, sempre attenendoci a quei dati, il territorio conterebbe 9.700 unità (imprese, negozi…) per un totale di circa 36.800 addetti impiegati. Questi numeri parlano da soli: il territorio si divide ancora in padroni e lavoratori e solo una piccola parte coincide con quanto sostenuto dalla presidente Ballurio.
Sono infomazioni ufficiali elaborate dal Sistema Locale del Lavoro di Ivrea nel 2012, ma per quanto “datate” sono state utilizzate per elaborare un documento (quello della ZOE) di meno di un anno fa ed è facile immaginare che la realtà lavorativa non sia cambiata più di tanto.
Ballurio ha ragione nel sostenere che molte persone, dopo innumerevoli porte sbattute in faccia, scelgano la via indipendente, provando ad aprire un’attività o un negozio, ma si sbaglia se pensa che questa “trasformazione antropologica del mondo del lavoro” trasformerà tutti in “operai senza padroni”. Questo dipenderà esclusivamente dalle scelte politiche che, sul territorio, verranno portate avanti e dal modo in cui le già scarse risorse pubbliche verranno gestite. Nel 2008 giunse, dalla Regione, mezzo milione di euro per il Distretto Commerciale Eporediese. Oggi, di quelle risorse pubbliche e di quell’iniziativa non rimangono che qualche totem e un sito internet di promozione del territorio (rifatto due volte e costato, in totale, quasi 40.000 euro).
È vero, la frustrazione di non trovare un lavoro fa salire la voglia di mettersi in proprio, ma chi sarà costretto a prendere questa decisione non per scelta, ma per poter sopravvivere, si ricorderà, soprattutto sotto elezioni, di chi non ha fatto nulla per combattere questa tendenza.
Andrea Bertolino