Franco Di Giorgi commenta lo spettacolo che Corrado Augias ha tenuta ad Ivrea, al teatro Giacosa, la sera del venerdì 20 gennaio
Il “tradimento” di Giuda non è che dóxa, opinione comune. In realtà – ci ha suggerito Corrado Augias nella sua suggestiva lezione su l’ebreo Jeshua tenuta venerdì sera (20 gennaio) al teatro Giacosa di Ivrea – è il Rabbi stesso, secondo il Vangelo gnostico di Giuda, a chiedere al suo prediletto discepolo (il tredicesimo apostolo) di aiutarlo a morire: di liberare cioè la sua persona spirituale dal corpo carnale che l’avvolgeva. Non è affatto Giuda, quindi, che decide arbitrariamente di tradire Gesù, ma è al contrario quest’ultimo che, in quanto previdente e provvidente, prepara, secondo la sua volontà, l’Iscariota affinché egli lo tradisca.
E con ciò, come si vede, si ripete l’analogo schema narrativo biblico adottato sia nel Genesi a proposito della disubbidienza edenica (divinamente prevista) di Adamo, sia nel Giobbe, a proposito della rivolta dell’Uzita. È insomma il Nazareno che progetta il suo tradimento e quindi la sua stessa morte terrena, servendosi di Giuda. Di una figura che, a causa di questo patto teandrico (esplicito in questo episodio, ma del tutto ignoto nel Giobbe), dovrà, per tutte le generazioni a venire, scontare l’onta del traditore, allo scopo di poter assolvere al difficile compito (umano, troppo umano: “ecce homo”, appunto) che il Maestro gli aveva assegnato. D’altronde, sempre nel Vangelo di Giuda si può vedere che è ancora questo discepolo preminente, ossia benedetto e maledetto insieme, che, sebbene con lo sguardo basso, osava stare dinanzi a Gesù.
È proprio per questo infatti che egli lo trasceglie tra gli altri apostoli. Gesù sceglie proprio Giuda per svolgere la parte di “traditore” in questa sua trama celeste, perché solo a lui può raccontare i misteri del Regno dei cieli. Per far sì che le Scritture si compissero – e Gesù si assume l’arduo compito di compierle –, che si adempissero cioè le parole dei profeti (Isaia, Osea, Geremia) e quelle dei Salmi (a proposito dell’amico che alza il calcagno contro l’altro amico), come peraltro ripetono sinotticamente i quattro evangelisti e come si intuisce dalla stessa parabola del chicco di grano, il Figlio di Dio doveva quindi necessariamente morire. Secondo il ferreo principio della necessaria priorità del negativo. E in ubbidienza a tale principio, per agevolare questo evento sovrumano, divino e paradossale, come può essere la morte di un Dio, occorreva pensare a una “occasione propizia” dice Luca dal suo canto, ossia a un pretesto storico-temporale, terreno o comunque adeguato alla comprensione umana. Bisognava, in altre parole, approntare una hagadàh o un sippùr, sì, insomma, un mýthos, una vulgata o, come si direbbe oggi, una storytelling, una narrazione.
“Quello che devi fare” – dice infatti alla fine Gesù a Giuda (il discepolo più amato e che non a caso era vicino a lui durante l’ultima cena) – quello che devi fare “fallo al più presto”. E ovviamente, si legge nel Vangelo di Giovanni, “nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto questo”. Capirono altro. Capirono solo che Giuda era il traditore. Ma come il Signore aveva amato ancora di più il suo popolo, che l’aveva tradito, così – ecco il senso necessariamente duplice del “tradimento”, ossia del rispetto della “tradizione” che doveva “compiersi” – anche Gesù non poteva non amare, sino alla fine, Giuda, colui che, secondo gli accordi, lo doveva tradire. E ciò fondamentalmente per poter far sì che la luce di un disegno divino potesse persistere anche nel cuore delle più profonde tenebre umane.
Ecce homo!