Ivrea, alla manifestazione per la pace
Sull’eco sibilante dei razzi e dei colpi di fuoco scatenati dal puti(n)ferio guerresco, sulle immagine strazianti delle lacrime e del dolore degli Ucraini assediati, sulle colonne di fumo dei palazzi colpiti, sull’avanzare dei blindati e dei carri armati in colonna, sull’invasione di una nazione sovrana da parte di un paese fratello per cultura e costumi, sulla follia della guerra, che è solo e sempre follia degli uomini che la scatenano, sulla disperazione dei civili terrorizzati e in fuga, sugli occhi rigonfi di pianto dei bambini innocenti, sui cadaveri riversi e insanguinati, sull’incredulità di dover ammettere che il nostro mondo, ritenuto dagli intenditori come il migliore dei mondi possibili, è in realtà un modernizzato teatro di barbarie, ecco, su tutto questo, nel tentativo ingenuo ma sincero di smorzare il senso di impotenza dominante, la partecipazione alla manifestazione pacifista, in segno di solidarietà agli Ucraini, mi è sembrato un gesto minimo e indispensabile da compiere.
In questo atto di spontanea adesione, per fortuna condiviso da migliaia di persone in diverse nazioni, ho visto la risposta unitaria di un mondo ampio e vigile, resistente e non fatalmente disumanizzato che almeno, nella sua immediatezza, dice il suo no alla guerra, no all’aberrazione delle armi, no ai conflitti come metodo di produzione della pace. La pace è un diritto a prescindere, senza se e senza ma, un diritto al cospetto del quale qualsiasi ragione, che preveda di imbracciare un fucile, non può che rivelarsi sterile e foriera di morte.
Mentre mi avvicino alla nostra piazza di città, sfilando prima su un Lungo Dora infreddolito, dove si incontrano ragazze in divisa da arancere, in un’Ivrea che attraversa i giorni dell’ormai suo terzo carnevale mancato, a causa della pandemia, rivedo, attraverso la finestra dei luoghi comuni seppur fortemente simbolici, la grande terra russa. Rivedo in essa la madre della letteratura e degli scacchi, i suoi panorami di gelo che incappucciano di neve le stelle rosse sulle torri del Cremlino. Rivedo me stesso con il naso all’insù davanti alla cattedrale di San Basilio e poi in gironzolo a Leningrado sulla famosa prospettiva Nevski. Era il 1989, in quei tempi lontani quando stava per cadere il muro di Berlino e la perestrojka di Gorbaciov perseguiva il processo di transizione verso nuove aperture politiche e inediti sogni di libertà. Io che ho sempre patito il freddo, portavo una spessa calzamaglia sotto i pantaloni e meditavo di comprarmi un colbacco e intanto vedevo la neve che cadeva sulle spalle mantellate delle donne russe, quelle robuste, capaci di mangiarsi un panino all’inpiedi e all’aperto a quindici sotto zero, appoggiandosi su tavolini rotondi collegati al suolo da un’unica gamba e privi di inutili sedie. Volti sorridenti tra le rughe e fiocchi di neve sfarfallanti in lenta discesa dal cielo di piombo.
Perché adesso devo vivere i miei ricordi adombrandoli con quanto sta accadendo? Perché un carro armato russo, e impazzito, dirotta la sua traiettoria, su una terra non sua, e spiaccica un’automobile in arrivo, come farebbe uno scarpone sopra una cimice? Perché un bambino ucraino deve piangere in un bunker dicendo che non vuole morire? Perché un uomo deve separarsi dalla sua famiglia per andare a sparare in difesa della sua patria? Perché devi vedere bombardare la tua casa e perderla per le decisioni di quelli che al potere, riuscirebbero a dirti, che lo fanno per il tuo bene?
Piazza di città è un’onda di folla, una corona di facce, molte con il becco di stoffa, in rispetto delle norme anticovid. Ci sono le bandiere che sventolano e persone di ogni età che puntano occhi e orecchie verso il palazzo comunale. La bandiera della pace e dell’arcobaleno contrappone i suoi colori al grigiore storico del momento. Ci sono cartelli in lingua ucraina e ci sono il giallo e l’azzurro di una bandiera che adesso sentiamo tutti anche come nostra. E poi ci sono le parole che, come sempre in queste occasioni, tentano di spiegare la follia appellandosi agli ideali di pace. Pierangelo Monti, presidente del consiglio internazionale di Riconciliazione, microfono alla mano, si chiede come si possano far soffrire i bambini, come si possa stroncare la loro innocenza, stravolgendone o uccidendone la vita, poi esibisce la sua bandiera, un drappo consunto e sbrindellato dal tempo che oggi appare come un segno di pace violato dal sangue.
Osservo che tra il pubblico ci sono dei giovanissimi e anche la ragazza, con la divisa da arancere, connota la folla come un punto di apparente anacronistica presenza. Ma la vita è pura mescolanza di aspetti contrastanti e spesso inspiegabili. L’odio, a volte, si può rovesciare nel sentimento di amore per la vita, quello che la consueta pratica del judo dovrebbe suggerire al gelido dittatore russo. A me interessano relativamente le cause o le ragioni della guerra in corso. Lascio agli altri la precisione delle analisi politiche. Io mi limito ad osservare di cosa sono capaci gli uomini di potere, privi di coscienza al punto di annientare i popoli in un delirio di onnipotenza.
I coriandoli di carnevale sui cubetti della piazza sembrano fiocchi di neve sotto le scarpe, una neve variopinta e delicata. La ragazza in divisa da arancere ha una mano sulla spalla del compagno, le dita corredate di anelli e le unghie smaltate di grigio. Come sempre in queste manifestazioni molte parole muoiono nel microfono che improvvisamente smette di funzionare. Il sole si sta indebolendo nell’avanzare della sera. Gli interventi si susseguono su quel clichè di belle e buone parole che, lì per lì, sembrano formare scudi indistruttibili contro la forza bruta delle armi, ma che poi, a tratti, rischiano d’inciampare nei fraseggi della retorica. La pace, una volta perduta, non ritorna se non con il suo carico di vittime, uomini e donne come corpi sacrificati nel tritacarne delle assurdità operate dai potenti.
Al microfono c’è chi invoca il disarmo globale a cominciare da quello nucleare. Bisogna sciogliere la Nato, si sente dire, bisogna consegnare alla politica la supremazia sugli interessi economici, ma io penso che non saremo mai all’interno di queste parole se non ci eleviamo all’altezza dei sacrifici necessari per concretizzarle. Le parole possono essere pietre ma anche volatili suggestioni, esili astrazioni.
Intanto la guerra divora la carne e anche la speranza che solo la vita, nel suo miracoloso mistero, può rilanciare. Sotto il cadere dei razzi, nel rifugio sotterraneo, la voce della speranza è quella di una bambina che viene al mondo, mescolando i suoi primi vagiti alle sirene di allarme.
Molti hanno capito che se non hai una buona ragione per morire non ce l’hai nemmeno per vivere e hanno deciso per il coraggio invece che per la paura. Sono persone che hanno un sentimento di appartenenza al popolo e alla terra. Sono anche i Russi che manifestano in patria contro la guerra. Tra le pagine eroiche del conflitto, nessun “vaffa” di Grillo vale quello della piccola pattuglia di uomini che, sull’isola dei Serpenti, ha mandato a farsi fottere la corazzata russa che ha intimato loro di arrendersi. Sono tutti morti risuscitando subito nell’immortale aureola della loro dignità di uomini.
Purtroppo solo i morti vincono la guerra, i vivi la perdono tutti.
Me ne torno a casa, con le mie perplessità di sempre. Fa freddo, e laggiù in Ucraina la bandiera gialla e azzurra non vuole ammainarsi. La sosteniamo con il nostro pensiero anche se è poco, è troppo poco.
Alla manifestazione si è sentita anche la canzone di John Lennon, quel capolavoro del secolo scorso che si intitola:Imagine. Ecco, Putin, un potente che distribuisce la morte, di quel brano e della vita non capisce un cazzo.
Dobbiamo continuare a imparare, tirare sù i fiori dal letame, perché se la guerra non ci insegna nulla anche l’Ucraina e le sue sofferenze, come la pandemia, saranno l’ennesima occasione sprecata.
La butto lì, così, ma alla prossima manifestazione per la pace, sentendo la canzone di John Lennon, ascoltandola nel profondo, dovremmo metterci tutti in ginocchio.
Pierangelo Scala