A discutere del futuro dell’auto nel mondo in un Paese con il 50% della popolazione sotto la soglia di povertà
Andare in un paese che si trova nell’emisfero sud del mondo fa sempre una certa impressione, se poi si tratta di un paese di cui in questi decenni si è parlato tantissimo si crea un meccanismo paradossale: vai in mondo lontano dal tuo, non hai la minima idea di cosa troverai e allo stesso tempo sei alla ricerca di conferme.
A Pretoria, e Johannesburg, ho avuto l’opportunità di andarci – in rappresentanza della Fiom – per il meeting annuale sull’automotive di IndustriAll, la rete sindacale globale dei sindacati dell’industria. Lontani dalla turistica e molto inglese Cape Town, affacciata sull’Oceano, ci siamo ritrovati tra i 1.700 metri dell’altipiano dove si trova Johannesbourg – la capitale economica e industriale del Sudafrica con i suoi oltre cinque milioni di abitanti – e i 1200 metri di Pretoria, capitale politica e sede del nostro meeting.
Perché in Sudafrica? Perché è un paese che ha l’obbiettivo di passare dello 0,6 all’1% delle auto prodotte nel mondo, cioè un milione di vetture, che oggi vengono costruite in quasi una decina di impianti dai principali costruttori europei, asiatici e americani. Noi abbiamo visitato uno stabilimento della Ford, in espansione, con standard lavorativi accettabili, e scoprendo che una parte importante delle vetture prodotte è destinata all’esportazione, anche verso l’Europa.
D’altro canto il tradizionale settore minerario vive invece una fase di stallo.
Eravamo settanta sindacalisti provenienti da 15 paesi – per l’Italia due della Fiom e uno della Fim – ospiti del Numsa – principale sindacato dell’industria che nel 2015 è stato espulso dal Cosatu, tradizionale centrale sindacale, che insieme all’Anc (African National Congress) e al Partito Comunista sudafricano (comunista ormai più di nome che di fatto) costituisce uno dei cardini del sistema politico e di potere del paese.
Il Numsa, rescisso il proprio legame con il Cosatu ha allargato i confini della propria rappresentanza a tutte le categorie, ha contestato “da sinistra” un eccessivo appiattimento sulle politiche di governo dell’Anc e si è posto di recente anche il problema di costruire un nuovo partito del lavoro. Giova ricordare che qui esiste anche una specie di contratto nazionale.
In situazioni come la nostra il tempo è tiranno, ma le visite in successione a Soweto e poi al Museo dell’Apartheid di Johannesburg sono di grande impatto emotivo e hanno compensato l’impossibilità per la ristrettezza dei tempi di allargare lo sguardo i grandi parchi, benché il Kruger, che è uno dei più famosi, sia a poco più di due ore di strada.
Soweto è la township per definizione, tanto estesa e popolata – oltre un milione e 250 mila abitanti – quanto densa di luoghi simbolici: qui, soprattutto dalla rivolta degli studenti del 1976 in poi, sono state uccise migliaia di persone, tra cui moltissimi adolescenti. Ma Soweto è visivamente anche la rappresentazione del presente: povertà diffusa, vere e proprie baraccopoli di lamiera, come in tutte le periferie del mondo. Ma con l’unica strada al mondo dove hanno vissuto due Nobel per la pace (oltre a Nelson Mandela, lo stesso Desmond Tutu), e però anche una zona chiamata la Beverly Hills di Soweto dove si trova la villa di Winnie Mandela.
Johannesbourg, della cui area metropolitana Soweto fa parte, è una delle metropoli più pericolose al mondo, con problemi che arrivano da lontano – come quelli tra le diverse etnie, non a caso undici sono le lingue ufficiali del Sudafrica – e conflitti più “moderni” e a noi familiari, seppur con un diverso grado di drammaticità, come le aggressioni quotidiane dei tassisti agli autisti di Uber intorno alle stazioni ferroviarie e della metropolitana.
Dopo aver visto Soweto, il museo dell’apartheid consente di contestualizzare la storia paradossale di un paese dove, mentre in buona parte dell’Africa andava avanti il processo di decolonizzazione, un minoranza bianca inferiore al 10% della popolazione pretendeva di tenere in un regime di segregazione e apartheid il restante 90%, sfruttato come manodopera a bassissimo prezzo. D’altronde la storia di Johannesburg è emblematica: una megalopoli sorta nel nulla per le miniere d’oro, con i neri forzosamente inurbati e poi confinati nelle township come Soweto. Il museo è una eccezionale “miniera” di documentazione fotografica e video, che non nasconde nulla, dalle lotte degli operai bianchi ai 14mila morti dopo la fine dell’apartheid all’inizio degli anni 90, in una transizione ancora non conclusa. Megalopoli come Johannesburg convivono con ampie zone rurali, dove spesso è ancora il sangoma, cioè lo stregone, che decide sulla scelte della comunità evocando le anime degli avi.
Noi, in mezzo a tutto questo, abbiamo discusso del futuro dell’auto, con un’attenzione foŕse troppo squilibrata sul futuro, tutta concentrata sull’elettrico, la guida autonoma e le nuove forme della mobilità, soprattutto urbana: dal car sharing a trasporti pubblici più efficienti (almeno in alcuni paesi, come il Giappone).
Molto gettonato, anche se considerato particolare, il caso della Norvegia dove gli incentivi portano la Tesla ad un costo pari ad un’altra auto e inferiore del 50% rispetto al normale prezzo di mercato. Un futuro, in ogni caso, già disegnato, con una fase di transizione che sarà forse più lunga del previsto, e con un presente denso di incognite. Più lunga sarà la transizione, rappresentata soprattutto dalle motorizzazioni ibride, meno accelerati saranno gli impatti negativi sull’occupazione, che con l’auto elettrica riguarderanno pesantemente soprattutto le attività di powertrain, motori e trasmissioni. È bene notare che in tutte le slides presentate per illustrare programmi e investimenti dei grandi costruttori, è stata evidenziata l’assenza di Fca.
Il Sudafrica è un significativo punto di osservazione rispetto alle strategie di alcuni dei più importanti costruttori: per esempio Gm, che in Europa ha venduto Opel ma che si sta ritirando da alcune aree dove non ha una posizione di leader, come l’Africa, che significa Sudafrica ma anche Kenia, e poi Russia e soprattutto India.
Abbiamo quindi discusso del difficile ruolo del sindacato, con nuove leggi sul lavoro, che un po’ dovunque incentivano precarietà e licenziamenti, anche là dove, come in Sudafrica, appena esci dai cancelli delle grandi multinazionali, prevale ancora l’economia informale e i diritti non esistono. Un paese dove 25 milioni di persone, cioè il 50% della popolazione, vivono sotto la soglia di povertà, con una disoccupazione del 35%, un livello di disuguaglianza più alto che in Brasile e una forte pressione migratoria dai paesi confinanti.
Il contrasto alla precarietà rappresenta in ogni caso un impegno comune, con risultati pur molto diversi: in India, anche nei grandi impianti automobilistici, si arriva al 90% di lavoro precario, nelle grandi imprese tedesche ci sono accordi che limitano al 10% gli interinali. Anche se non tutto è oro ciò che luccica neppure in Germania, dove i mini job hanno abbassato tutele e salari. Gli inglesi invece lamentano – nel paese capofila della deregulation – la diffusione inarrestabile dei contratti a zero ore, cioè il nostro lavoro a chiamata.
In questo quadro assai complesso colpiscono alcune vicende paradossali.
Per la seconda volta gli operai della Volkswagen di Chattanooga nel Tennessee hanno bocciato l’ingresso in fabbrica del sindacato, e lo stesso è successo alla Nissan di Canton, nel Mississippi: tanto da far dire a qualcuno che il Sud degli Stati Uniti è uno dei luoghi peggiori per svolgere attività sindacale. D’altronde è proprio uno stato del sud – il South Carolina – ad avere il tasso di sindacalizzazione più basso, cioè l’1%. A pochi chilometri dalla frontiera messicana dove IndustriAll non ha ancora capito dove finisce il sindacato e dove comincia la criminalità dei “cartelli” dei Narcos che controllano anche le “relazioni sindacali”: mi ha molto colpito nella discussione il silenzio dei due messicani presenti proprio mentre si discuteva della situazione del loro paese.
Invece l’IgMetall della Volkswagen ha raccontato dei progetti che in Cina coinvolgono anche i sindacati locali, scelta in qualche modo obbligata per chi ormai ha lì il 38% totale della produzione automobilistica, e 92mila dipendenti su 625mila.
Un dato interessante, poi, riguarda un paese, la Turchia, a noi vicino non solo per ragioni geografiche ma perché vede uno sviluppo della produzione automotive, a partire da Fca: ebbene, il salario orario medio è di 2,65 dollari.
Infine una nota di colore: il Numsa ci ha offerto una cena in una struttura di nome Montecasino: una riproduzione in stile Las Vegas di un angolo di Toscana rinascimentale, con ristoranti dai nomi assurdi, tipo Cacchio (proprio così!), annesso Casinò, e un unico divieto, all’ingresso, quello di entrare armati. Sì perché, tra i primati che il Sudafrica divide con gli Usa e i paesi latinoamericani, c’è quello della quantità di armi in circolazione.
Insomma ancora lunga è la strada segnata dai principi del Freedom Charter del 1955, fatti propri poi dalla Costituzione promulgata da Nelson Mandela alla fine del 1996: rispetto, libertà, democrazia, responsabilità, riconciliazione, diversità e uguaglianza.
Federico Bellono