Il confronto tra Enzo Bianchi e Odifreddi, venerdì 3 febbraio al Giacosa
Scenografia del palco ridotta all’essenzialità dialogica dei due protagonisti. Due sedie sotto un cono di luce e due uomini, due mondi e anche due sopramondi a confronto, quelli del credente che non rinuncia all’apporto illuminante della razionalità, e quelli dell’ateo, cultore della logica ancorata alla realtà dei fatti dimostrabili. Venerdi sera, 3 febbraio, sulla scena del Teatro Giacosa, quasi come due facce della stessa medaglia, Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose, e il matematico Piergiorgio Odifreddi si sono reciprocamente interrogati su questioni di primaria e mai sopita attualità come il rapporto tra la dimensione terrena e concreta dell’aldiqua e quella più imperscrutabile e astratta dell’aldilà. Lo hanno fatto da persone intenzionate a non cedere alle tentazioni del tifo, così come dovrebbe essere quando gli opposti dell’esistenza si contemplano discreti, come recitava la locandina di presentazione dell’evento, “cercando di andare d’accordo pur senza esserlo”.
Tra i due personaggi, minuscola nelle dimensioni ma emblematica nel significato, una clessidra, su un tavolino, limitava, per accordo tra le parti, i tempi di ogni intervento alla durata simbolica dei dieci minuti, questo per non perdersi nell’oceano di parole e pensieri che riflessioni di questo genere normalmente comportano. Alla fine di ogni intervento, capovolgendo a turno la clessidra, ogni interlocutore rivolgeva una domanda all’altro, risucchiando nelle risposte e negli argomenti trattati l’attenzione di un pubblico numeroso e desideroso di ampliare il bagaglio fisico e/o metafisico della propria consapevolezza.
Enzo Bianchi, dopo la premessa di non avere né certezze né conoscenze, ma soltanto convinzioni, sottolineava l’importanza della fede intesa come fiducia in una forma di giustizia post mortem, in grado di compensare i grandi mali e le sofferenze di questo mondo, altrimenti da ritenersi inaccettabili. Inoltre, lo stesso Bianchi indicava nell’amore l’idea di una continuità imperitura, l’unica cosa in grado di durare in profumo di eternità. Per contro, Odifreddi si rifaceva, convintamente anche lui, alle ragioni inoppugnabili che vedono nel principio di ogni cosa anche la sua fine: l’intera natura si muove attraverso questo principio di nascita, crescita e decadenza, illustrato, senza equivoci, dal corpo come metafora dell’intera esistenza. Certo, secondo Odifreddi, il credente sembrerebbe avvantaggiato, potendo egli avvalersi dell’antidoto consolatorio, fornito dalla religione di fronte allo spettro della morte, mentre il materialista deve fronteggiarne l’inevitabilità con l’occhio del disincanto e quindi privo di quelle speranze che trovano alimento nella fede.
Altro tema in gioco, tra le opposte visioni, quello del bene e del male, valori e disvalori oggettivamente più identificabili per Bianchi, e invece più sfumati e relativi secondo Odifreddi. Quest’ultimo poneva con vigore l’accento sulla mutabilità dei valori in relazione al mutare stesso delle epoche e delle culture in cui vengono adottati. Inoltre insisteva sull’idea che per capire le ragioni degli altri occorre mettersi nei loro panni e assumerne il punto di vista. In questo modo sarà più facile constatare come ciò che è bene per gli uni sia ritenuto male per gli altri e viceversa. Si citano esempi come la pedofilia, considerata quasi ordinaria nelle abitudini dell’antica Roma e oggi avversata, l’omosessualità che rischia di provocare, attraverso il matrimonio tra persone dello stesso sesso, scismi prossimi venturi all’interno della stessa religione cattolica, si sottolinea come in alcune culture l’attentato omicida sia giudicato più grave se commesso contro lo Stato che non contro l’individuo.
Sulla pedofilia, naturalmente, il credente puntualizza cercando distinzioni tra l’età che concerne i bambini e quella che riguarda i ragazzini, ma si sa che, lungo questa via. i parametri di giudizio e i confini tra le cose sono sottili come lame di rasoio. Insomma, il relativismo di Odifreddi ha una certa forza di persuasione, ma Bianchi tiene testa soprattutto nel non voler confondere ciò che è bene da ciò che è male.
Certamente, e qui sono i miei pensieri che parlano, il credente deve portarsi sulle spalle anche il pesante fardello di tutte le falsificazioni e le oppressioni di cui la religione, strumentalizzata e asservita al potere, si è resa protagonista ai danni dell’umanità, mentre l’ateo gode di maggiore destrezza nel processo di desacralizzazione ironica dei meccanismi a cui si appella il fedele. In definitiva, Odifreddi è più spiritoso, mentre Enzo Bianchi, che difende e costruisce le ragioni del sacro invece di demolirle, ha un compito più difficile.
Inevitabilmente, dagli aspetti più filosofici, scientifici e spirituali, si passa al tema della guerra in Ucraina e alle tante guerre in genere che conducono al massacro le popolazioni inermi e plotoni di giovani soldati, ignari persino delle ragioni per cui vanno a a morire. Enzo Bianchi si infervora mettendo coraggiosamente sul tavolo anche le cause e le provocazioni che hanno indotto l’invasione della Russia in Ucraina. Non c’è nessuna giustificazione all’atto dell’invasione in sé, sottolinea con chiarezza, ma l’invito è quello di osservare anche tutto ciò che precede le origini del conflitto onde meglio direzionare le forze nello sforzo diplomatico della pace. In questo senso, sembra omaggiare le posizioni di Odifreddi, il suo appello rivolto a considerare anche le logiche dell’altro.
Parlando della guerra, l’incontro volge alle conclusioni lasciando spazio alle curiosità del pubblico non parco di domande. La clessidra non viene più capovolta. Il cono di luce che illumina, con benevola eguaglianza, i protagonisti del dialogo, si accende anche sul pubblico.
Odifreddi, salomonicamente, con il taglio ironico che gli è congeniale, ricorda come tanto il credente quanto l’ateo abbiano entrambi torto, non potendo dimostrare nulla circa l’esistere o il non esistere dell’aldilà.
Il credente Bianchi, anche nel nome, sembra raccogliere un frammento di nuvole mentre l’ateo Odifreddi, analogamente nel nome, sembra evocare quella freddezza della mente che è il presupposto per il trionfo della logica. Entrambi, come già detto, appaiono complementari, ciascuno portandosi all’interno della propria concezione di vita qualcosa che sembra appartenere anche al colore e al calore dell’altro. Ma c’è una parola che li divide in senso netto ed è la parola “immortalità”. Per il credente è probabilmente la parola più importante del linguaggio e dell’esistenza umana, per l’ateo una parola forse priva di significato, che semplicemente non usa e che quindi non esiste.
Pierangelo Scala