Giovedì 24 novembre all’Auditorium Mozart l’associazione “Tino Beiletti”, volontari penitenziari, e la Fraternità di Lessolo, in collaborazione con Libreria Mondadori di Ivrea, hanno organizzato uno di quegli eventi che raramente capitano e che altrettanto raramente possono essere dimenticati: un dialogo tra Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, e Adriana Faranda, ex brigatista responsabile dell’organizzazione del sequestro Moro.
Il progetto che ha portato le due donne a conoscersi e ad iniziare un confronto, anzi un incontro sarebbe meglio dire, nasce 15 anni fa per iniziativa di padre Guido Bertagna, il quale invia una lettera rivolta ad alcune persone, sia vittime sia membri della lotta armata, con cui dalla fine degli anni Novanta si erano stretti rapporti di ascolto e vicinanza (come già riportato da questo articolo) e diventa un libro edito da Il Saggiatore dal titolo: “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, che vale davvero la pena di essere letto. La serata, come chiarisce subito il moderatore Guido Bertagna, non è una rivisitazione degli anni Settanta o un momento per rivangare pro e contro, ma è la restituzione di quanto il progetto da lui ideato ha saputo creare all’interno delle vite delle persone che hanno scelto di farne parte. Ed è di quella sofferta e coraggiosa restituzione che il numeroso pubblico presente in sala ha fatto esperienza.
Agnese Moro ha solo 25 anni nel 1978, quando il padre viene rapito e ucciso dalle Brigate Rosse e da quel momento la sua vita cambia per sempre, non soltanto per logica conseguenza della morte del padre, ma anche per le enormi implicazioni che quella morte ha avuto in tutto il Pease. Il suo lutto privato ha subito i continui scossoni dell’interesse pubblico che quella vicenda aveva (ed ha tuttora), tanto da non permetterle di poterlo elaborare come chiunque, non sotto i riflettori della Storia (e di quella storia), avrebbe fatto. Le parole che pronuncia per noi sono dunque quelle della persona Agnese, figlia di un padre che adora, strappatole in maniera brutale e assurda da chi ha scelto la violenza come lotta politica. Racconta quale rabbia incancellabile ha patito e quale silenzio ha trovato intorno a sé. La giustizia delle aule del tribunale ha fatto il suo corso, certo, i colpevoli sono stati identificati, arrestati, processati e incarcerati, ma la vittima, ci dice Agnese, non trova conforto in questo tipo di giustizia perché la morte è un fatto irreversibile a cui nessuna condanna può dare conforto. Che fare, allora? Nascondere tutto dentro e cercare di non trasferire ad altri la propria pena, il proprio dolore, per non dargli modo di contagiare altre vite: quelle dei suoi figli, degli amici, di coloro che le vivono accanto. Ma quando riceve la telefonata di padre Bertagna, dentro di lei scatta qualcosa e riesce a compiere una scelta estrema, forse difficile da condividere, e allo stesso tempo però risolutiva per lei e anche per i suoi cari. Poter incontrare l’”altro”, colui o colei che stava sul lato opposto della barricata, e conoscerlo, sapere chi era e chi è diventato fa sì che anche lei faccia chiarezza dentro di sé e trovi finalmente un posto per il suo dolore che non sia soltanto un luogo riparato da nascondere al prossimo. Non si tratta né di perdonare (non si sente buona abbastanza per farlo e il perdono ha sempre una valenza un po’ “buonista” e comunque solo intima ed individuale) né di ascoltare eventuali giustificazioni, ma di incontrare veramente un altro essere umano e porsi in ascolto per poter ricollocare il presente alla luce di un passato che, se non pacificato, tende a non passare mai. Del resto il trauma è per definizione “un’esperienza travolgente di eventi catastrofici improvvisi in cui la risposta all’evento si verifica nella comparsa ripetitiva spesso ritardata e incontrollata di allucinazioni e altri fenomeni intrusivi” tipica in situazioni in cui, come ben ci ha insegnato il filosofo francese Paul Ricoeur che di questi temi si è occupato a lungo, il passato tende a tornare, a “non passare” e ad invadere il presente impedendo al futuro di fare il suo corso, intrappolando le persone in un vortice di sofferenza. Il passato che non passa infatti è un concetto che a più riprese abbiamo sentito evocare durante la serata e che ha accompagnato e segnato il secolo scorso dando vita ad altri percorsi riparativi analoghi come la “narrazione del trauma” di cui molta letteratura si è avvalsa, pensiamo ai tanti testi sul tema della Shoah e a come siano stati “necessari” a chi li ha scritti in mancanza dell’interlocutore diretto con cui confrontarsi. In questo caso, grazie al progetto di padre Bertagna, analogamente a quello post-apartheid seguito in Sudafrica (TRC – Truth and Reconciliation Commission), vittime e responsabili della lotta armata hanno avuto modo di intraprendere una strada insieme, fatta di ascolto e mirata alla “ricomposizione di quella frattura che non smette di dolere” come spiegano Adolfo Ceretti (criminologo) e Claudia Mazzucato (docente di diritto penale), co-responsabili del progetto insieme a padre Bertagna. Siamo quindi nel solco e sulla scia di un grande ambito che a partire dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso ha interessato settori diversi della nostra società e che si colloca a pieno titolo dentro una modalità “altra” di affrontare la Storia che brucia.
Ascoltiamo pieni di gratitudine, di sorpresa e di enorme ammirazione il coraggio e la forza di Agnese Moro che ci racconta il suo percorso umano e il suo avvicinamento ad Adriana Faranda, la quale non senza fatica prende la parola dopo di lei per condividere con noi lo stesso tipo di cammino, partito dalla direzione opposta. Anche la sua testimonianza è sofferta e presuppone come punto di partenza l’assunzione di responsabilità per le scelte non reversibili del suo passato, ma che non possono riassumere, cristallizzare e identificare la sua persona. Dissociata dopo l’arresto, Faranda ha concluso il suo iter carcerario ed è ora una cittadina che gode dei suoi pieni diritti e che, come tale, merita di essere trattata. Non è questione di dimenticare o di guardare sotto una luce diversa gli eventi di allora, ma di porli nella giusta dimensione, quella storica li ha già giudicati. L’opportunità di dialogo e ascolto è riuscita laddove nient’altro ha potuto ed ha ottenuto un miracolo a cui tutti abbiamo potuto assistere, cioè l’accoglienza dell’altro da sé come dono di riconciliazione e apertura del presente. È una “cosa” indescrivibile vedere quelle due donne guardarsi e sorridersi, scambiarsi battute di sincera amicizia, riversando su di noi, platea attonita, tutta la vicinanza che mai si sarebbe immaginata tra loro. Riparare era l’intento del progetto e davanti ai nostri occhi è chiaro l’obiettivo sia stato ampiamente centrato, almeno tra coloro (come Moro e Faranda) che hanno voluto e scelto di parteciparvi. Ed è un vero peccato che l’amministrazione di Ivrea non abbia concesso il patrocinio a questo evento, dimostrando di non averne colto l’enorme portata storica e culturale e soprattutto privando i cittadini e le cittadine della possibilità di ospitarlo in un luogo di maggior capienza, come ad esempio il teatro civico, luogo che avrebbe evitato ad almeno cento persone di restare fuori dalla sala Mozart, affittata per l’occasione dagli organizzatori e unica ad avere un numero abbastanza adeguato di posti. Era ovviamente prevedibile una grande affluenza di pubblico, come ormai capita dal 2015, anno in cui per la prima volta è stato presentato il libro e il progetto a Milano.
Inutile dire che chi c’era ha avuto la netta sensazione di essersi recato ad un appuntamento con la nostra Storia recente e ne ha certamente avvertito l’unicità e il valore. Grazie di cuore agli organizzatori e soprattutto ad Agnese e Adriana, due persone eccezionali, per essere riuscite a fare ciò che hanno fatto e a farcelo sentire e vedere.
Lisa Gino