Incontro all’ANPI di Ivrea: Bottani presenta il suo ultimo lavoro “Addio alla cultura“
Venerdì sera, 16 dicembre, all’Anpi di Ivrea si è provato a mettere da parte le parole stanche della politica, quelle preconfezionate delle ideologie e quelle urlate della protesta, per dare spazio, con la calma dovuta, alle parole essenziali della riflessione filosofica. Rispondendo alle domande dei molti e attenti studenti del liceo scientifico Gramsci, il filosofo Livio Bottani ha provato a sintetizzare le tesi esposte nel suo ultimo lavoro dal titolo tanto eloquente quanto inquietante, Addio alla cultura (Aracne, 2014).
Con questa è la quarta volta che lo studioso viene ospite a Ivrea. Era stato invitato nel 1995 al liceo Gramsci (quando era ancora sul colle Bellavista), per parlare agli studenti del suo saggio su Orrore e stupore, in occasione della prima esperienza della Cogestione; è ritornato poi nel 2008 alla Serra di Ivrea (grazie al sostegno della libreria Cossavella) per presentare il suo nuovo lavoro su Il tragico e la filosofia; era quindi ritornato al liceo Gramsci nel 2012 come esperto per la Giornata della Memoria, per affrontare il difficile problema del rapporto tra memoria e oblio.
Diversi sono i testi che ha pubblicato nell’arco dei trent’anni (1985-2015) in cui ha insegnato Estetica all’Università di Vercelli. I suoi studi spaziano dal campo dell’estetica a quello dell’ermeneutica, facendo interagire la filosofia con la storia (Shoah), la letteratura (Proust, Beckett, Dürrenmatt, Pirandello), la poesia (Celan, Montale, Leopardi) e da ultimo con la scienza, con l’evoluzionismo darwiniano, la psicoanalisi, la biologia, la neurofisiologia, la genetica. Le sue, però, sono delle analisi strettamente filosofiche che assumono come fondamento e come oggetto di indagine il sapere, inteso non solo come sapere filosofico in senso stretto, ma come sapere culturale in senso lato. È da una tale questione del sapere che prende le mosse la sua ricerca. All’interno della quale rileva una serie di contraddizioni e di antinomie irresolubili dal pensiero stesso. Questo sapere presenta infatti quella dualità che ha ad esempio in Edipo o in Filottete due delle figure simboliche più significative. Ben lungi però dal tentare di risolverle, come farebbe il pensiero della conciliazione hegeliana, Bottani si limita teoreticamente a ravvisare in queste contraddizioni una inconciliabilità insanabile che lo conduce ad affermarne l’essenza tragica.
E tragica per eccellenza è la natura umana. Infatti, secondo quanto dice la filosofia, da un lato l’uomo è per natura spinto alla conoscenza, dall’altro, però, questa conoscenza, poiché ha come fine il raggiungimento della verità, più che suscitare il piacere, provoca al contrario dolore. Da qui la sublimità del tragico, vale a dire la coesistenza di due stati d’animo opposti. È qui, tra stupore e orrore, in questa condizione di intermedietà, che esiste perlopiù l’uomo, anche se raramente ne è consapevole. La verità che si rivela al fondo della ricerca, della sképsis filosofica, è anzitutto dolorosa e orribile perché pone l’uomo malinconicamente di fronte alla sua mortalità. Da una parte, dunque, la scoperta dolorosa della propria finitudine avviene in virtù della inclinazione umana alla conoscenza; dall’altra, però, viceversa, è grazie a questo stesso sapere della propria mortalità che, nei secoli, l’uomo ha prodotto un sapere, una cultura tesa ad attenuare il dolore che questa condizione mortale gli procura. Pertanto, se da un canto la filosofia può essere considerata come lama di un coltello che incide la carne fino ad arrivare all’essenza dolorosa della verità, dall’altro canto essa si configura al contempo come un sapere teso ad alleviare questa ferita mortale e irrimarginabile. Il termine che i Greci usavano per esprimere questa doppia valenza della filosofia è phármakon, che significa ad un tempo veleno e contravveleno.
Questa tragica contraddittorietà Bottani la ravvisa su diversi piani d’indagine. Anzitutto sul piano filosofico, con una conoscenza che per l’uomo è ad tempo veleno e contravveleno: essa scopre cioè una verità – la mortalità – che sarebbe meglio non sapere mai; poi anche sul piano della testimonianza storica (da un lato i reduci dai Lager nazisti, ad esempio, vorrebbero mantenere la memoria, ma dall’altro, poiché essa è dolorosa, risulta per loro un bene anche obliarla); sul piano culturale in generale (le forme artistico-culturali non sono altro che delle risposte al desiderio incontenibile di restanza, di eternità, al desiderio di voler raggiungere il divino. Sicché, se nei secoli, da un lato, l’uomo ha sviluppato una conoscenza e una molteplicità di tecniche culturali in senso lato per dominare e per dominarsi, per controllare la natura (soprattutto la propria) e per superare i limiti che tale natura gli impone (la finitezza) facendo ricorso allo strumento umano per eccellenza, cioè alla ragione, dall’altro, tuttavia (e qui l’autore pensa ad esempio alle due mani che si disegnano di Escher), questa stessa ragione, trasformando la natura e il mondo (anche quello antropologico) in un qualcosa di controllato dalla tecnica, anziché garantire il dominio dell’uomo sulla natura ha invece generato le condizioni per la sua sottomissione alla tecnica. Da signore, dice insomma Bottani, l’uomo è divenuto succube della tecnica. Più che soggetto, l’uomo ora è assoggettato o alienato, nel senso che è condizionato e modellato a priori dalla macchina e soprattutto dai suoi ritmi, dalla sua velocità, dalle sue esigenze tecno-logiche. E ciò però non nel senso della dialettica conciliativa e redentiva hegeliana, ma in quella tragica e irredimibile di Adorno e Horkheimer. Non nella prospettiva umanistica dell’homo faber, bensì in quella oltreumanistica della “chimica delle idee”. L’io? Un’illusione necessaria. Un mito creato dalla coscienza. La coscienza? Consiste in un rapporto tra storie a grana fine (storie molecolari, subatomiche, quantiche) e storie a grana grossa (fenomeni naturali). L’intuizione, la percezione, l’intellezione? Processi cognitivi riconducibili a movimenti molecolari elettrochimici, a condizioni atomiche e subatomiche. L’autocoscienza? Si deve ai neuroni a specchio. La libertà e il libero arbitrio? Un’altra pia illusione. Le decisioni vengono prese a livello genetico e neurofisiologico e l’uomo non può fare altro che assecondarne in ogni caso l’esito. L’uomo, dunque, da un lato, dall’esterno, è sottomesso alla logica della tecnica (tecnologia), e dall’altro, dall’interno, è guidato dalla logica dei neuroni (neurologia). Intanto sopraggiunge la morte dell’individuo. Le particelle, i microrganismi però restano. La vita continua sotto l’impulso del Dna a perpetuarsi uguale a se stessa. In una sorta di eterno ritorno dell’uguale. L’impressione che alla fine si è avuta da questo intenso incontro con un filosofo vero (dal momento che non ha mai avuto bisogno di citarne altri per esprimere il proprio pensiero), è di una stupefacente inquietudine. Quella stessa che si poteva cogliere nei volti degli astanti, anche di quelli più scettici. Mantenendosi rigorosamente all’essenziale, risulta del tutto evidente che con la sua ricerca Bottani stia proseguendo quel duro lavoro nietzscheano di prosciugamento di quelle acque salvifiche dentro le quali le certezze assolute possono continuare a prosperare. Ma il filosofo ci ha fatto percepire in qualche modo l’angoscioso boccheggiare di quelle certezze.
Franco Di Giorgi