Approfondimento sul tema abitativo a Torino
Parte I – Vita ai margini: senzatetto e campi rom
Mentre la retorica del mondo post – Covid ci parla di una fuga dalle città verso i piccoli paesi al grido di “nulla sarà più come prima”, per chi abita nelle grandi città e non può permettersi di fuggire nessuno dei vecchi problemi è sparito, al massimo è peggiorato, a causa anche di vecchie soluzioni, già dimostratesi inutili nel mondo pre – pandemia. È il caso di chi ad esempio una casa proprio non ce l’ha, e in questi due mesi non ha tratto significativo vantaggio dai vari “andrà tutto bene” e “#restoacasa”, né dalla gestione poliziesca dell’epidemia.
Il 4 maggio la giunta Appendino decide di chiudere il punto “Emergenza Freddo” della Croce Rossa situato in piazza d’Armi, protrattosi fino a maggio a causa dell’emergenza Covid e ospitante un centinaio di senzatetto in gran parte stranieri, senza proporre alcuna misura sostitutiva. Il motivo addotto sarebbe di tipo sanitario, con l’arrivo del caldo e l’impossibilità di non creare assembramenti. Una parte degli sgomberati, circa una quarantina, decide quindi di spostarsi in piazza Palazzo di Città, sotto i portici di fronte al Municipio, in segno di protesta e perché privi di un posto dove andare.
La protesta in parte funziona, perché attira l’attenzione di molti solidali che si auto-organizzano portando aiuti concreti come cibo, vestiti e sanitari, oltre che condividendo aggiornamenti sulla situazione e stringendo contatti con i senzatetto. Ai solidali si sono aggiunti organizzazioni sia di aiuto pratico, come l’associazione Il gusto del Mondo che si è preoccupata di fornire cibo, sia mediatico, come lo sciopero della fame a staffetta dell’associazione Marco Pannella.
A causa di tutta l‘attenzione creatasi, il 7 maggio viene indetta una commissione comunale su Zoom in videoconferenza, dove le varie associazioni solidali esplicitano le mancanze del comune che ha lasciato senza casa, senza cibo e senza servizi igienici di alcun tipo un centinaio di persone. Per tutta risposta Sonia Schellino, vicesindaca e assessore alle Politiche Sociali, si è scollegata dalla riunione durante l’intervento, rifiutando di prendere posizione. Nelle interviste successive bollerà la protesta come “pretestuosa”, lamentando problemi derivanti dal fatto che alcuni dei senzatetto fossero stati precedentemente cacciati dai dormitori.
Bisognerà attendere ancora fino all’ 11 maggio perché qualcosa venga fatto: in mattinata le 40 persone verranno trasferite in un hub temporaneo al padiglione V di Torino Esposizioni, previo tampone. I tamponi risulteranno miracolosamente tutti negativi, anche se né i diretti interessati né l’avvocato solidale Gianluca Vitale potranno mai vedere direttamente i risultati dei test. L’ hub temporaneo vicino al Valentino verrà aspramente criticato e considerato dai più una mossa mediatica mascherata da manovra sanitaria, sia per la veemenza con la quale è avvenuto lo sgombero (tutti gli oggetti personali dei senzatetto sono stati buttati) sia per l’inadeguatezza strutturale del ricovero temporaneo: all’interno, come documentato dagli stessi abitanti, non vi saranno né strutture igieniche né giacigli sufficienti per tutti.
Il 14 maggio verrà reso noto che i senzatetto sono stati inseriti in diverse strutture: 12 nei dormitori, 8 negli ex-Sprar, 16 in strutture d’accoglienza, 13 nei Cas e una nel Cpr. I solidali sono tutt’ora in contatto con alcuni di loro e continuano a seguirne le sorti.
A dimostrazione del fatto che c’è sempre chi sta peggio, il 12 maggio sono state abbattute nove case del campo rom di via Germagnano (uno degli ultimi campi “regolari”), uno sgombero in realtà già cominciato a Dicembre. Presentato inizialmente dai maggiori quotidiani come uno “sgombero dolce”, senza ruspe e caterpillar, una vittoria del modello Moi e del reinserimento sociale, una sconfitta della giunta regionale leghista costretta a reinserire i rom.
Niente di più sbagliato: ad oggi gli interventi di inserimento hanno riguardato solo le 8 famiglie (72 persone) residenti nel campo denominato Germagnano 10, quello regolare. Per tutti gli “abusivi”, 370 persone invisibili allo Stato di cui un centinaio di bambini, non è prevista nessuna soluzione, con buona pace della retorica secondo cui la maggiore difficoltà nel reinserimento dei rom sia dovuta al fattore culturale e non alla gestione statale.
Come se non bastasse con l’arrivo dell’emergenza SARS-CoV-2 queste persone si son viste togliere ogni possibilità di sussistenza: sgomberi di cantine, raccolta del ferro e mercatini non sono più possibili a causa delle norme contro il contagio, e così pure l’elemosina e il recupero dai cassonetti, per cui è prevista pure una multa fino a 500 euro, ennesimo paradosso di una società con un problema di rifiuti e uno di povertà ma che non permette il recupero in quanto la spazzatura diventa automaticamente proprietà dello Stato e il recupero automaticamente furto. La maggior parte di loro si basa su economie di sussistenza per sopravvivere alla giornata, una pratica non più possibile nell’attuale situazione di emergenza e che si regge su fragili gesti di solidarietà come quello dell’associazione Vivi Balon, che si preoccupa di portare frutta e verdura ai campi informali.
È di nuovo la vicesindaca Sonia Schellino ad affermare che gli aiuti sono stati portati «a tutti i cittadini e le famiglie che ne hanno fatto richiesta». Peccato che non tutti possano farne richiesta, vuoi per mancanza di requisiti vuoi perché anche solo non lo sanno, visto che l’unico rapporto con lo Stato è dato dalla polizia, perennemente di guardia al campo insieme ai militari. Lo stesso Daniele Lieti, dirigente del Reparto informativo minoranze etniche della polizia municipale di Torino e gestore pratico delle operazioni di sgombero sostiene che per i «non sono usuali residenti del campo, non potevamo fare niente» e che «non c’è nessuna relazione tra la pandemia da coronavirus e l’abbattimento» delle abitazioni. È vero, buttare giù delle baracche non crea di per sé un problema sanitario, ma 370 invisibili impossibilitati ad usufruire degli aiuti statali e che ora si trovano senza casa sì che lo creano.
Questi problemi gestionali rientrano nella retorica di lotta al degrado che tanto piace a livello mediatico e che negli anni tutti i partiti hanno cavalcato, pur con differenti declinazioni, dando vita a soluzioni al problema della marginalità non solo disumane dal punto di vista etico ma anche miopi e infantili a livello pratico: allontanare i poveri e gli svantaggiati dalla vista, spingerli ai margini della città, equivale a mettersi le mani davanti agli occhi in mezzo all’autostrada e convincersi che, dato che non possiamo vederlo, il camion non ci investirà. Non solo non funziona, ma probabilmente il problema peggiora.
Soluzioni diverse, come evidenziato da chiunque lavori o solidarizzi con le condizioni di marginalità, esistono. Ad esempio fornire a tutti una casa e l’accesso alla salute, senza utilizzare il proprio status giuridico o nazionalità come discrimine. Se tuttavia fino ad oggi queste proposte sono state bollate come eccessivamente naïf, con l’emergenza coronavirus diventano quanto mai pragmatiche. Non è una questione di etica, come spesso si tende erroneamente a credere quando si parla di questi argomenti: i senzatetto che non si sono uniti alla protesta e sono rimasti in piazza d’Armi, i 370 abusivi del campo di via Germagnano e tutti gli invisibili di cui la politica decide da anni di lavarsi le mani sono una bomba a orologeria al contempo sociale e sanitaria, le cui conseguenze potrebbero essere anche peggiori del virus.
Lorenzo Zaccagnini