Per la rassegna “Visti da noi” A Ciambra, proiettato al Cineclub Ivrea martedì 19 e mercoledì 20 marzo
Recentemente in onda sullo schermo del Boaro, nell’ambito della rassegna dedicata al Cineclub Ivrea, questo film di Jonas Carpignano sembra fatto apposta per suscitare pareri discordi suggerendo almeno due modalità di lettura. La prima, quella sicuramente nelle intenzioni dell’autore, si riferisce al crudo realismo della vicenda, dove uomini e cose diventano ritratto di ambiente, esposizione della realtà così come l’occhio della cinepresa la inquadra. L’altra modalità di fruizione vorrebbe, invece, cogliere, nella realtà manifestata, un possibile significato, un appiglio di interpretazione, un messaggio decifrabile perché la realtà stessa diventi strumento di riflessione al di là della semplice registrazione fotografica dei fatti.
Il film, dal primo punto di vista, è perfetto nella sua mortificante ricostruzione di un degrado senza pari, dal secondo è un vero cazzotto allo stomaco dello spettatore che, come nel mio caso, avverte disagio e indignazione come se vedesse una balena agonizzante perchè ha lo stomaco pieno di plastica.
La Ciambra, definita il Bronx di Gioia Tauro, è un quartiere di difficile accesso anche alla polizia, dove vive, ma sarebbe meglio dire naufraga nel fango da anni, una comunità rom. Si è detto che questo film, utilizzando gli stessi membri della comunità come attori dei loro personaggi, in un lungo lavoro di autorappresentazione, abbia emulato il neorealismo di maestri consacrati come Rossellini o Francesco Rosi. Penso che qui si sia toccato soprattutto il vertice di una disperazione quotidiana dove l’umanità perde ogni rispetto di sé e uomini bianchi e neri affondano insieme. Una disperazione più nichilista rispetto a quella dettata, in passato, dalla povertà del dopoguerra.
Il protagonista è un ragazzino che vive all’interno della comunità e che, fin da bambino, impara le regole ciniche della sopravvivenza senza scrupoli. Un fratello più grande in galera e nessuna educazione possibile a portata di mano, se non l’addestramento al furto, attività su cui giovani e adulti basano la loro economia di sopravvivenza. Qui non ci sono sogni in cantiere, qui non c’è un futuro da corteggiare o una redenzione possibile.
Qui si vive nello sfacelo ambientale, tra cumuli di rifiuti dati alle fiamme, violenze verbali, cattivi esempi e paesaggi morti. L’unico scorcio di umanità visibile è l’amicizia del ragazzino con un nero senegalese l’unico su cui versare almeno una lacrima di dispiacere prima di tradirne il rapporto di fiducia. Come detto, il regista non interferisce con ciò che mette in scena, non esprime giudizi di valore. Il suo film è un un quadro di ineguagliabile squallore dove anche il gesto di una prostituta, comprata per svezzare il ragazzino, non deroga di una virgola alla regola del distacco emotivo, dell’atto meccanico ed impersonale. Nessuna salvezza o riscatto, nessuna possibilità di fuga e forse anche nessun desiderio di fuga. Tutto ruota sul confine estremo della lotta quotidiana che abbruttisce uomini e luoghi. Martin Scorsese, coproduttore del film, ha detto che si tratta di un’opera bella e commovente e il film stesso è stato inizialmente candidato all’Oscar nel 2018, candidatura successivamente ritirata. Il regista è stato bravissimo nel collegare lo spirito della fiction e quello del documentario. Il suo sguardo è freddamente distante, ma molto ben organizzato nella sua neutralità che, rispetto al neorealismo di un tempo, certifica ancora di più l’idea di una resa umana senza condizioni. Vedendolo, penso a quanto percorso si debba ancora compiere, non solo per integrare gli africani, ma anche certi italiani orfani della loro stessa società. Il film evidenzia una realtà perduta e costituisce anche un’occasione, per chi ci guarda dall’estero, di giudicarci senza sconti all’insegna di un facile disprezzo.
Ma questo, ovviamente, è solo un mio pensiero, e spero anche di sbagliarmi.
Pierangelo Scala