I ragazzi di Mar del Plata e quelli di corso Vercelli. Venerdì 23 febbraio lo spettacolo teatrale sulla squadra di rugby di Buenos Aires è andato in scena all’interno della Casa Circondariale eporediese
Il 19 dicembre scorso, in occasione della Giornata Mondiale per i Diritti Umani, ho raccontato la storia dei ragazzi di Mar del Plata dal palcoscenico del teatro Giacosa. Una storia vera, della squadra di rugby di Buenos Aires La Plata, sterminata nel 1978 dal regime di Jorge Rafael Videla, in pieno campionato mondiale di calcio. Quella sera ho pensato di vivere un’emozione unica: non attrice, non sceneggiatrice, sotto i miei piedi le tavole di legno del Giacosa. Venerdì scorso, 23 febbraio, a questa storia si sono spalancate ben altre porte e ben altri cancelli.
Quelli della Casa Circondariale di corso Vercelli, a Ivrea. Insomma, del carcere. Portare uno spettacolo in carcere significa innanzitutto che ogni persona e ogni singolo oggetto prendono corpo a sé e sono tenuti a lasciare un segno. Chi sono, come si chiamano, cosa faranno, se e come potranno varcare quei cancelli. E fino a quando si tratta di te, delle ragazze del coro, dei tecnici, del regista è cosa di documenti. Ma quando sono i singoli oggetti, ognuno singolarmente, a dover rispondere di sé, allora è come se per la prima volta vedessi ciò che fino ad allora è stato un tavolo, una sedia, un canovaccio, un pugno di farina. Poi arriva il giorno in cui anche tu varchi quei cancelli, il metal detector, in cui anche tu attraversi cortili, aspetti che una porta si chiuda prima di varcare quella che si aprirà, cammini lungo corridoi, guardi pareti, fissi incredula chiavi enormi. E intanto capisci che il buio che sempre separa l’attore dal pubblico questa volta non “si può fare”.
E che gli spettatori, per la prima volta, li vedrai. E non sono spettatori qualunque. E allora all’inizio reciti la tua parte guardando altrove, ma poi, mano a mano che la storia si indurisce, che il testo si fa incalzante, il ritmo pesante, allora decidi che i tuoi spettatori li guardi in faccia, uno per uno, e li distingui, e racconti loro la storia. In faccia. E come, quando c’è il buio in sala, tu il pubblico lo “senti”, ti arrivano la tensione, la partecipazione, l’empatia, questa volta, faccia a faccia, tu ti porti via gli sguardi, le espressioni del viso, i sorrisi. Poi lo spettacolo finisce e non c’è tempo che per pochi applausi, perché il pubblico deve tornare in cella e bisogna smontare in fretta e uscire. Io, noi, fuori, alla normalità, alla libertà. Ho sentito più volte il disagio, la difficoltà, la fatica, miei, di donna, ”femmina”, in un carcere maschile. Mia, di essere umano libero, che “poi”, alla fine, avrebbe ripercorso al contrario quella strada, varcato quei cancelli, uscito. Libero. Ma prima di andarmene ho avuto l’immenso dono di stringere delle mani. Ascoltare delle voci dirmi “grazie” e “brava”. Solo queste due parole. Ogni stretta di mano è stata per me un abbraccio. Ne conservo intatta ognuna. Quella del Giacosa è stata indubbiamente un’emozione unica.
Quella di venerdì scorso, lezione di vita.
Grazie ragazzi.
Simonetta Valenti