Utopia, tecnologia, economia, pubblicità…: Il lancio della Tesla Roadster nello spazio tramite il razzo Falcon Heavy (Elon Musk – Space X); sulla rete; Ivrea, 6.2.2018
Lo voglio dire subito: di tutta questa bagarre iper-mega-supermediatica che ha costituito il lancio del razzo Falcon Heavy per portare una macchina elettrica Tesla nello spazio, quello che più mi è piaciuto, e che penso valga la pena di vedere, sono le immagini della macchina rosso ciliegia in orbita intorno alla Terra. Tali e quali, nella loro pura e lineare epifania. Credevo di poter superare la baraonda promozionale che ha preceduto l’evento e l’evento stesso senza dedicargli molta attenzione: difatti nei giorni precedenti ho solo letto, en passant, i titoli dei giornali; non ho seguito neanche in diretta il lancio e le quattro ore successive quando si è potuto vedere live la macchina orbitare intorno alla Terra. Ho visto tutto il giorno dopo, in streaming, e per caso: i giornali online includevano in prima un filmato al riguardo.
E cos’è che mi ha colpito di questo streaming? Cos’è che l’ha reso così attraente, piacevole e ipnotico? La luce. Quasi esclusivamente la luce. Il suo riflesso e la sua ombra. Il movimento che genera: tutto apparirebbe, infatti, faticosamente lento, quasi fermo, inerte, se non fosse per gli spostamenti apparenti della luce e della sua ombra. Eppure è il razzo non visibile sul quale è installata la macchina che si sposta a migliaia di km all’ora, e anche la Terra! La luce (le luci, frammenti di luce), taglia, lineare e precisa, il casco, i guanti di Starman, il guidatore; si sposta sul volante della macchina, slitta lungo il cruscotto, si adagia lenta sul parabrezza, colpisce morbida le curve chiuse dei retrovisori, scivola purissima e decisa sugli arrotondati angoli della levigata carrozzeria, esalta splendente il rosso ciliegia del metallo che diventa di un grigio-blu ombroso quando la luce l’abbandona. La luce è il centro dello sguardo. Sempre la luce. Ogni tanto la scena cambia di prospettiva: la Terra davanti alla macchina, dietro alla macchina, ai lati della macchina, riflessa sopra la macchina; la macchina sola davanti o di fronte al nero spaziale… ma poco importa, è sempre la luce cangiante che dà senso ed esistenza al tutto.
Strana sensazione! Ci si sente in uno spazio non proprio. Spaesati. Lontani. Uno spazio non reale, tuttalpiù iperreale o surreale. Eppure è rigorosamente reale, anzi, naturale. Naturali sono l’infinito Spazio e il Tempo infinito che avvolgono la scena. Naturali il Cielo e la Terra. Naturali, assolutamente naturali, la Luce e le sue Ombre. Naturale è resa anche la macchina, poiché soggetta in quanto oggetto nello spazio alle stesse condizioni naturali di qualunque piccolo corpo orbitante lungo la sua naturale, gravitazionale, strada. Solo la tecnologia che rende possibile la visione della scena è frutto dell’artificio umano. Eppure, forse a causa della novità del fatto e della sua vicinanza alla fantascienza o al delirio utopico, tutto quanto stiamo vedendo non ci sembra naturale, e poiché non ci sembra naturale, fatalmente ci sembra artificiale. E poiché artificiale, soggetto a inganno: indesiderato risultato della malignità umana, fake. Ecco, ancora caldo il lancio, proliferare sulla rete le paranoiche teorie cospirative: tutto è falso, simulato ad arte in un luogo segreto con l’oscura intenzione di continuare ad imporre su di noi, poveri umani, il Dominio del Male.
Poi, spinti dalla curiosità approfondiamo e verifichiamo che l’evento mediatico è frutto della volontà di promuovere i progetti visionari (ai limiti della fantascienza) in sviluppo nelle aziende di Elon Musk, il demiurgo imprenditore. La demo, nello showroom globale, degli esaltanti risultati di un Capitalismo Responsabile alla ricerca delle Grandi Soluzioni al servizio di un’Umanità Ottimista e Positiva. Un esempio delle sinergie tra pensiero utopico, tecnologia, economia e pubblicità nell’Epoca Fluida della Post-post-modernità. Non male. I video delle simulazioni previe al lancio dei razzi sono molto didattici, spettacolari e belli, i timelapse del progetto e degli streaming della macchina nello spazio bellissimi. Le reazioni virali al virale evento curiose, istruttive e divertenti. Gli ammiccamenti con il flusso più fluido e ambivalente della cultura pop (Bowie) e la fantascienza (Asimov e Adams) molto ludici ed efficaci. Tutto bello e positivo. Davvero. Calma, quindi. Godetevi lo spettacolo. Don’t Panic!
La scultura come spazio: Richard Serra – The Matter of Time, 1994–2005 e Snake, 1994-97; Otto sculture in acciaio corten; Museo Guggenheim Bilbao; Bilbao, Settembre 2017; Ivrea, 12.2.2018
Il caso o la decisione hanno voluto che l’anno appena passato mi sia stato prodigo di visite, anche più volte, a Grandi Santuari dove si espongono alla venerazione dei fedeli, spesso in pellegrinaggio, i sacri Totem (ed altre immagini e feticci sacri), del Sistema dell’Arte Contemporanea. Il consorzio Rivoli-Rebaudengo-Ogr a Torino, la Fondazione Prada e lo Spazio Bicocca a Milano, il Centre Pompidou e il CAC a Malaga, il Museo di Belle Arti e il Guggenheim a Bilbao, il nuovissimo Centro Botin di Renzo Piano a Santander, il Macba, il CCCB e la Virreina a Barcellona, non li cito tutti, sono alcuni di loro. Visitare questi Santuari non è un rituale facile da eseguire per un appassionato dell’arte del proprio tempo il quale, in tempi ancora di Luce, deve fare i conti con l’Oscurantismo e la Superstizione che in questi Templi, come nei più antichi delle più antiche religioni, dilaga. Difficile sottrarsi non tanto all’inutile domanda frequente davanti allo stupore sacro dei fedeli “cosa sia e cosa significhi un’opera d’arte contemporanea” ma alla più pressante, e politicamente e moralmente più pregnante, “a cosa e a chi serva il Sistema dell’Arte Contemporanea”. Non mi dilungherò, quindi, per non farmi male, sull’inquietante e drammatica questione: la risposta implica svelare la relazione simbiotica tra Capitalismo anche Selvaggio e Arte Contemporanea, la loro reciproca dipendenza; il feticismo delle merci, l’alienazione e lo sfruttamento, in puri termini marxiani di economia politica, che ciò comporta; il ruolo degli Stati neo-liberali nello sviluppo del sistema… mi fermo quindi e vado oltre.
Nel Museo Guggenheim di Bilbao c’è un opera, un insieme scultoreo fatto di più sculture, che, nonostante la nota difficoltà nel definire cosa sia “un’opera d’arte contemporanea” potremmo definire tale. E’ l’insieme composto dalle sette sculture “The Matter of Time” e dell’intitolata “Snake” di Richard Serra. E’ un’opera contemporanea, in primis, senza che ciò comporti condizioni necessarie alla definizione, perché contemporanei sono i materiali utilizzati, le forme costruite, il progetto concettuale che la sorregge, le tecnologie per svilupparla; è d’arte perché, non è il caso di impelagarsi troppo, i suoi elementi sono spiegabili tramite un linguaggio intrinsecamente artistico (!).
“The Matter of Time – Snake” mi ha proporzionato un’esperienza estetica veramente nuova. Ci si sente soli e persi dentro questa scultura. Dentro. Perché non si guarda dal di fuori: la sua materia non sono i volumi e le forme bensì lo spazio interiore che esse configurano. Immettendosi nei corridoi che formano le asimmetriche metalliche alte pareti si entra in uno spazio puro e misterioso, spiazzante, che provoca un senso di ludico ma inquietante smarrimento. Cosa faccio qui? Che me ne faccio di questo silenzio? Mi sembra di essere in un bosco o in una vallata chiusa, o forse in un labirinto, dei quali non so se ritroverò l’uscita, e neanche se ci sarà un’uscita. Cammino con inutile cautela. Tocco delicatamente le pareti che si curvano e si inclinano in modo impercettibile ed imprevisto. A volte lo spazio si restringe fino a farmi temere un cul da sac. Cerco gli inesistenti riflessi della luce esteriore e scorgo solo ombre nubili, ombre senza la loro luce. Cerco nella materia soavemente ruvida ed oscura delle pareti la presenza dei particolari, ma non ci sono particolari, c’è solo un continuum sempre uguale e diverso da se stesso che dialoga silenzioso con lo spazio uguale e diverso che lui stesso via via crea. Dentro questo spazio claustrofobico e attraente, come nei grandi paesaggi, mi dimentico dei particolari e del domestico, per ritrovarmi, senza essermene accorto, col sublime e, attraverso il sublime, con me stesso. Adesso sono meno guardingo. Capisco poco a poco che non ci sono rischi, che sto giocando solo con le mie paure…
Se mi avessero detto tempo fa che avrei scritto di Richard Serra non ci avrei creduto; così mi è successo con artisti come Moore o Lichtenstein: l’immersione senza riserve nella loro opera mi ha fatto cambiare opinione.
Nel mistificato e affollato Tempio del Sistema dell’Arte Contemporanea gestito dai Mercanti e dai loro Grandi Sacerdoti bisogna districarsi tra le bancarelle della Grande Vecchia Paccottiglia. E’ un districarsi alla ricerca, a volte faticosa ma per fortuna spesso fruttifera, di qualcosa di veramente artistico e contemporaneo. Nonostante tutto ne vale sempre la pena.
Paco Domene