Se qualcuno pensasse di gustarsi una retrospettiva dei film di Woody Allen, sappia che quest’ultimo uscito è il film nr.48 del regista di New York. Una vera maratona filmica la sua produzione che, condensata in 51 anni della vita di Woody, fanno quasi un film all’anno, media da primato. Qua e là, nelle critiche che lo riguardano, si vocifera che questa sua effervescenza produttiva sia un trucco, un’escamotage che il regista usa per non pensare alla vita, per tenere alla larga la nevrosi e per scongiurare il fatale approssimarsi della morte, cosa di cui si è sempre dichiarato contrario. Ma per quanto il lavoro esorcizzi i fantasmi di Allen, questi riaffiorano nei suoi personaggi, richiamati nei toni della commedia, del dramma o della tragedia.
Il materiale umano, utilizzato da Allen, è variegato nei movimentati sali e scendi della vita ben simboleggiati dalla ruota del luna park di Coney Island, elemento spettacolo e sfondo scenico del film. La protagonista della storia è Ginny, impersonata dalla fascinosa Kate Winslet, ultima icona del cinema arruolata da Allen, che fa la cameriera in un bar e sogna una vita più appagante di quella che condivide con il marito Humpty, ex ubriacone. Lei ha, come frutto di un legame precedente, un ragazzino piromane mentre l’attuale marito ha una figlia adulta di primo letto che non vede da anni, sposata a un malavitoso. Per evadere dal quotidiano Ginny intreccia una relazione con il bagnino della spiaggia sotto casa il quale finisce poi di invaghirsi di Carolina, la figlia rediviva di Humpty, avviando la storia verso l’epilogo infausto in cui di solito conduce il tarlo rovinoso della gelosia. Come spesso succede nei film di Allen, i suoi soggetti, forse campionari globali di una comune allergia, non sopportano la normalità e, coltivando malcelate ambizioni, sognano un futuro di successo nel campo della scrittura o del cinema o di chissà cosa. Così sognando una vita diversa ed esemplare tutti mancano quell’unica che hanno a disposizione, finendo di assaporare controvoglia il gusto amaro del fallimento, termine che in America si usa sempre al netto di ogni indugio.
Il film di Allen è dunque un carosello di esistenze rappresentative di quegli uomini comuni che cadono ostaggio di sogni prevalentemente fasulli. Vittorio Storaro, il direttore della fotografia, alla seconda collaborazione con Allen dopo Cafè Society, esalta la ripresa con la maestria della sua fotografia. C’è nel film tutta quella fisiologia della luce, definizione da lui stesso adottata, che dipinge ogni inquadratura. E’ uno spettacolo nello spettacolo. La luce ubbidisce a Storaro che, come un Caravaggio del cinema, la fa scendere sugli ambienti di atmosfera anni 50, in cui il film è collocato, e sui personaggi che trascolorano dalle tinte calde a quelle fredde, così sottolineando anche i loro caratteri e stati d’animo. La storia è probabilmente ispirata ai classici teatrali di Eugene O’Neil che io non conoscevo e che adesso, grazie ad Allen, so chi è. A 82 anni Woody Allen firma un’altra opera di valore, attento a non ripetersi, pur affrontando i temi di sempre. Quando al cinema di fine anno compare un suo lavoro, per me il regalo di Natale è assicurato.
Pierangelo Scala